La borsa vuota
di Nando dalla Chiesa – Evidentemente i colpi di scena non bastano mai. Il tempo si diverte a giocare a rimpiattino con i familiari delle vittime. I pezzi di verità emergono uno alla volta, a distanza di decenni. E il sollievo (il relativo sollievo) di sapere qualcosa in più è subito contraddetto dal sapore di beffa che accompagna ogni rivelazione. Ma come, non lo sapevate che la borsa del prefetto dalla Chiesa era a disposizione di tutti, nei sotterranei del Palazzo di giustizia di Palermo, alla stanza dei corpi di reato? E dove volevate che fosse? Colpa vostra se non siete andati a cercarvelo. Sembra di sentirlo, con quel suo tono di dileggio, il fantasma irridente che governa il gioco a monopoli in cui si trasforma ogni processo fatto di misteri e di potere. Tornare al punto di partenza. Andare in Vicolo Corto. Di nuovo al 3 settembre. Ecco, lì c’è un prefetto ucciso a colpi di kalashnikov: sulle gambe ha una borsa piena di documenti. Ma non ce l’aveva detto nessuno, a noi familiari, che avesse la borsa sulle gambe. Nemmeno che avesse con sé la borsa.
Trent’anni senza che lo sapessimo. Ma sarà poi vero? Ci sono foto che lo attestino senza ombra di dubbio? Già, accidenti: ma non hanno scattato delle foto quella sera maledetta? Come è possibile? Certo, hanno coperto tutto con il lenzuolo, il famoso lenzuolo preso a casa sua, nella residenza prefettizia di Villa Pajno. Ma i rilievi chi li ha fatti, e dove sono custoditi? Quel che sembrava allora una formalità atroce, diventa ora un dettaglio vitale per capire. Per entrare nella logica del delitto ancor più di quanto sia stato possibile grazie al lavoro smisurato dei giudici. Su questo bisognerebbe ragionare: dunque il prefetto stava lavorando a una o più piste investigative. Dunque esisteva del materiale di indagine temibile (che qualcuno temeva), tanto che, dopo le 21.10 del venerdì 3 settembre 1982, a quel materiale non è stato nemmeno consentito di percorrere la strada obbligata che portava dalla Scientifica alla Squadra mobile e poi alla Procura di Palermo; a quella Procura retta allora da Vincenzo Pajno, l’uomo che disse alle mie sorelle e a mio zio che lui su quella strage non aveva intenzione di giocarsi le ferie (nemmeno la carriera; le ferie!). E ancora: se indagine era in corso, su che cosa stava lavorando il prefetto di così importante da indurre qualcuno a chiedere a Cosa Nostra di eliminarlo in fretta, il più in fretta possibile, tre giorni dopo il suo rientro dalle vacanze estive?
E’ qui, su questa domanda, che va inchiodato il rapporto tra mafia e politica. I giudici al maxiprocesso parlarono spesso di convergenza di interessi, per dire che il delitto non era stato voluto solo dalla mafia, e che anzi la mafia aveva forse solo seguito (eseguito) progetti altrui, immaginando di poterne trarre comunque dei vantaggi. Il prefetto in ogni caso avrebbe dato fastidio anche ai clan, questo era indubbio. Una letteratura giornalistica ma anche storica sterminata ha poi ritenuto, sulla base di fonti di prova di nessuna credibilità, di spiegare la spinta politica al delitto con le celebri e famigerate “carte di Moro”. Erano loro, abusivamente detenute dal prefetto, l’origine della decisione omicida, maturata verosimilmente a Roma. A questa letteratura mi sono inutilmente opposto per decenni. La nuova verità della borsa svuotata e degli altri documenti spariti rimette tutto in gioco. E spiazza drasticamente interpretazioni e convenzioni pigramente fatte proprie dalla cultura dietrologica dominante, costringendo a tornare all’abicì della logica. Ben altri e più attuali erano i documenti che i servizi segreti che passarono all’azione quella stessa notte e nei giorni successivi cercavano. Se proprio bisogna tornare al punto di partenza (che poi non è davvero tale…), ecco, ripartiamo da qui. A volte la verità ci scompare sotto il naso per i giochi sapienti del fantasma irridente. Altre volte, però, siamo noi che ce ne costruiamo un’altra. Come segugi addomesticati.
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