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Le verità che vorremmo da Riina jr

di Pierpaolo Romani il . L'analisi

Non capita certamente tutti i giorni di leggere un’intervista al figlio di un noto e feroce capomafia. Venerdì, il Corriere del Veneto lo ha fatto dando voce a Giuseppe Riina, figlio di Salvatore (Totò) Riina, il capo di Cosa nostra, la mafia siciliana. Cosa dice il giovane corleonese vestito firmato da capo a piedi? Dice di voler essere dimenticato, di desiderare di poter tornare davvero libero, di voler organizzarsi una vita nuova. Si tratta certamente di un’aspirazione legittima e, per certi aspetti comprensibile. Tuttavia, la questione merita un minimo di riflessione. Partiamo dal rapporto con i mezzi di informazione. Una persona che ha un passato criminale di un certo livello se accetta l’opportunità che gli viene offerta di parlare con un giornale si pensa lo faccia per fare dichiarazioni clamorose e per ricordare a tutti chi è e da dove proviene o, magari, per mandare dei messaggi. Il «padovano » Riina jr dichiara di condurre una vita modesta, di dedicarsi ai bisognosi, di essere salutato con rispetto da chi lo riconosce e lo incontra, di essere un super sorvergliato.

Basta tutto questo per credere che egli abbia veramente reciso i suoi legami con il mondo mafioso? Alcuni passaggi dell’intervista a Riina lasciano molti dubbi in merito. Per esempio, com’è possibile affermare di credere nello Stato italiano e, contemporaneamente, accusare lo stesso di «accanimento » nei confronti del padre? Credere e riconoscersi nello stato italiano significa accettare e praticare i principi e i valori della Costituzione, rispettare le sue leggi. Esattamente l’opposto di quello che fa un mafioso, capo o gregario che sia. Totò Riina, è bene ricordarlo, è stato giudicato colpevole da diversi Tribunali della Repubblica italiana, i cui magistrati, operando con autonomia ed indipendenza e applicando le leggi vigenti, hanno accertato che egli è stato mandante ed esecutore di centinaia di omicidi e il mandante delle stragi che hanno insanguinato la Sicilia e l’Italia nel 1992-1993. L’affermazione secondo la quale «mio padre non sarà mai un pentito e sta facendo il carcere con dignità» espone in modo evidente quali sono le basi della sub cultura mafiosa. I «pentiti» – meglio, i collaboratori di giustizia – sono criminali che hanno deciso di stipulare un contratto con lo Stato: forniscono informazioni di prima mano sulle organizzazioni criminali in cambio di protezione. I collaboratori, quindi, colpiscono al cuore l’elemento fondamentale del potere mafioso: la segretezza, l’omertà. Un «uomo d’onore» non parla, non collabora con lo Stato, non fa «l’infame»: questo è «fare il carcere con dignità». Se, come vogliamo credere, Giuseppe Riina vuole davvero cambiare vita faccia tre semplici cose: confessi ai magistrati tutto quello che ancora non ha detto. Dica quali sono e dove si trovano le ricchezze occulte della sua famiglia. E, infine, chieda pubblicamente scusa e perdono ai famigliari delle vittime innocenti di mafia.

 

*PierPaolo Romani  per il “Corriere.it”

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