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Buenos Aires, per un’antimafia sociale

di Claudio Savoia* il . Internazionale

Sorride senza quasi aprire bocca. E non smette di farlo anche quando racconta la devastazione che la mafia causa in Italia, l’astuzia con la quale i boss sviluppano nuovi affari e la necessità di focalizzare nuovamente l’attenzione sulla lotta contro di loro partendo dall’educazione, la coscienza cittadina e la memoria per le vittime dei loro crimini. E’ questo il paradigma di Libera, la rete di 1600 associazioni civili in nome della quale Tonio Dell’Olio è venuto a Buenos Aires per partecipare al convegno antimafie che la Fondazione Alameda ha organizzato i primi giorni di aprile.

 Quando cominciò ad interessarsi alle azioni della mafia?

 Sono stato cappellano in un carcere di massima sicurezza nel Sud Italia, dove vi erano detenuti vari boss, i più grandi capi mafiosi. Lì avevo contatto giornaliero con loro e provai a capire come vivevano l’esperienza di essere incarcerati. Sebbene fosse un castigo, loro lo trasformavano in una prova di virilità “sono un uomo perché ho 20 anni di carcere alle spalle e non ho mai tradito la mia organizzazione”.

Che cos’ha imparato in particolare?

 Giuseppe Piromalli, boss calabrese della pianura di Gioia Tauro – un porto attraverso il quale entra gran parte della droga che entra in Italia – un giorno mi disse: “I giornali continuano a descrivermi come un orribile e crudele assassino, ma io non capisco perchè. Sono il proprietario di due grandi edifici nel centro di Reggio Calabria – la capitale della regione – che affitto al Ministero della Salute.” Io pensavo: quest’uomo ha rubato molto denaro nella sua vita da uomo libero ed adesso che è in carcere continua a rubare. Stiamo finanziando un boss della mafia. Quando con Libera promuovemmo la legge sulla confisca dei beni dei mafiosi, Piromalli si mise a piangere perchè vennero confiscati anche i suoi due edifici.

 La confisca dei beni fu uno strumento efficace per ridurre il potere dei mafiosi?

Certamente sì. E’ stato impressionante ascoltare i boss detenuti sostenere che ciò violava un ipotetico patto tra loro e lo stato, secondo il quale già pagavano il loro debito con la legge attraverso il carcere.”Perchè ci tolgono anche i nostri beni?” Non erano preparati a questo.

 Però la mafia continua a reclutare affiliati tra i giovani…

 Sì, quando il boss di Palermo, Pietro Albieri, fu interrogato dal giudice Alfonso Sabella disse qualcosa di molto interessante: “Nelle aule voi insegnate a bambini e giovani di stare lontani dalla mafia, e mi sembra giusto. Però quando questi finiscono la scuola, hanno bisogno di un lavoro. E questo lavoro non lo chiedono a voi, ma a noi”. Aveva ragione. I giovani hanno un debito a vita con chi in qualche occasione li aiutò ad ottenere un impiego. Questa rete di complicità e lavoro con il mondo della politica, dell’economia e dell’informazione è una caratteristica distintiva della mafia.

 Ci sono anche dei legami oscuri tra i boss mafiosi ed alti prelati della Chiesa, non è così?

 Sì. E’ stato provato che nella Banca del Vaticano, IOR, si verificarono operazioni di lavaggio di denaro della mafia. Lì i religiosi possono aprire un conto corrente, ma possono anche delegare i movimenti del denaro a terzi. Questo aprì le porte ai mafiosi. E quel denaro non può essere investigato perchè è frutto di un’offerta.

 Cos’è rimasto di quell’immagine cinematografica del mafioso che vestiva in abito gessato e faceva donazioni mentre mandava qualcuno ad uccidere?

 Questa caricatura è stata superata. Il potere della mafia è profondamente radicato nel territorio d’origine, ma allo stesso tempo svolge i lavori più sofisticati. Nel 1989, quando cadde il muro di Berlino, l’attuale presidente del Senato – che era procuratore aggiunto a Palermo – intercettò una chiamata di un boss ad un suo affiliato, che era a Bonn nella quale gli diceva: “lascia stare tutto quello che stai facendo in questo momento e vai subito a Berlino Est per comprare tutto ciò che puoi”. Era la conquista di un nuovo mercato. Accadde lo stesso nel 2001 in Argentina, che ha dei vincoli molto forti con l’Italia. La mafia era narcotraffico, traffico di migranti, donne ed armi, però mai veniva nominata nel lavaggio di denaro. E in Italia ed Argentina le persone indagate o condannate per questo reato sono davvero poche.

 Quali sono le relazioni tra mafiosi ed imprenditori?

 Siamo in un momento molto particolare e pericoloso: a fronte di una mafia globalizzata troviamo una crisi economica e finanziera diffusa. I mafiosi, con le favolose somme di denaro nero che riesce a far entrare nell’economia legale, hanno il problema opposto degli imprenditori, che non possono ottenere il credito per i loro business.

 Ci sono degli affari preferiti dai mafiosi per investire il loro denaro?

 Il tradizionale è l’edilizia, però per esempio in Germania i servizi segreti scoprirono che la ‘Ndrangheta – la mafia calabrese, oggi la più forte al mondo – investì molto denaro nella grande impresa di energia russa Grazprom, che fornisce molti paesi europei. Fu allarmante per i tedeschi scoprire che dietro l’energia che consumavano tutti i giorni c’era la mano della mafia.

 Ci sono delle stime riguardo le somme di denaro che la mafia muove?

Nessuno dà numeri perchè non siamo sicuri di niente. Però il Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia ha detto che ‘Ndrangheta, Camorra e Cosa Nostra – le tre grandi organizzazioni criminali del paese – “fatturano” 150 mila milioni di euro annui solo in Italia.

 Ci sono stati momenti storici in cui la mafia è stata più controllata?

 Mai. Quando non riuscirono ad infiltrarsi, fecero patti o passarono alle minacce ed agli omicidi. Quando non si uccide, come in questo periodo, vuol dire che gli affari vanno bene.

Ma non ci sono stati neanche dei miglioramenti?

Sì, ovvio. Dopo il 1992 – quando furono assassinati i giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – ci furono tre fattori chiave nella lotta alla mafia. Il primo fu il fenomeno dei pentiti, che non si era mai visto. Raccontarono dettagli su come funzionavano le loro organizzazioni, ma non parlarono mai dei loro vincoli con i politici. “Questo sì che è molto pericoloso” dicevano. Il secondo fattore è l’applicazione della tecnologia alle indagini, in particolare le intercettazioni telefoniche ed ambientali. Il terzo è colpirla nella sua economia. C’è da approfondire questo cammino.

 Come si è venuta a creare la rete di Libera nel 1995?

 Fino ad allora si pensava che la mafia si potesse affrontare solo con la repressione. Noi dicemmo che a lungo termine la si può combattere anche con l’educazione, con una nuova presa di coscienza della responsabilità dei cittadini in questa lotta ed attraverso la formazione degli studenti. Cominciammo a contattare organizzazioni che stavano lavorando nel campo dell’educazione, della cultura e del medio ambiente, nazionali e locali. Ed ora siamo in 1600. Ognuno continua a fare ciò che sa fare. Per esempio alcune fanno teatro, e nelle loro opere inseriscono messaggi per creare una coscienza sul danno che fanno le mafie. Un’ altra molto importante nel paese è Legambiente che si specializzò nell’investigazione e denuncia i crimini ambientali dei mafiosi: traffico di rifiuti, residui tossici e materiale radioattivo. Legambiente produce una report annuale con tutti i crimini ambientali che ha causato la mafia.

 Come si articolano organizzazioni così diverse in una Rete?

 Abbiamo gruppi formati da differenti organizzazioni sociali e culturali che funzionano come una specie di vigilanti della legalità. Conoscono i loro quartieri e le loro città come nessuno. C’è poi un ufficio di Presidenza, con un team che lavora nella formazione, nella memoria – che per noi è molto importante -, nei beni confiscati alle mafie, uno che si occupa di promuovere lo sport come mezzo educativo, un ufficio legale che riceve denunce anonime ed accompagna e sostiene le famiglie delle persone assassinate. Inoltre, è attivo il settore internazionale di cui sono il responsabile, perché noi diciamo che siccome la mafia è globalizzata bisogna globalizzare anche l’antimafia. Il nostro presidente è Luigi Ciotti, un prete molto conosciuto in Italia.

 Qual è il ruolo della memoria nella lotta alla mafia?

 E’ uno strumento formidabile di consapevolezza. A Libera, ogni 21 marzo celebriamo il Giorno della memoria e dell’impegno. Facciamo una manifestazione nazionale e molte altre a livello locale, per ricordare le 900 persone che furono vittime innocenti dei crimini mafiosi. Partecipano quasi 600 familiari di queste persone ed anche alunni del nostro corso di educazione per la legalità democratica. Loro “adottano” una vittima sconosciuta ed approfondiscono la loro vita, fino alle cause per le quali fu assassinata. Dovreste vedere l’emozione che causa ad un ragazzo incontrare i familiari di una vittima della mafia. Purtroppo, è presente una letteratura che esalta l’immagine del mafioso; noi gli contrapponiamo quest’altra storia: quella di una madre, una vedova, che racconta come le distrussero la vita. E’ un’esperienza molto forte, che deve servire come terapia per vedere che può fare ciascuno di noi per il rispetto della legge.

Questa strategia di “vaccinazione democratica”contro le mafie è accompagnata dallo Stato?

 Non sempre, ma a volte è possibile. Carlo Alberto Dalla Chiesa, un carabiniere molto duro che nel 1982 fu inviato in Sicilia come prefetto e fu assassinato, diceva che se continuiamo a permettere alla mafia di concedere favori per ciò che lo Stato dovrebbe garantire come diritti, non vinceremo mai. Una persona che era stata educata secondo la cultura della repressione finì col parlare di un’antimafia di prevenzione, un’antimafia sociale, che è ciò che serve per bonificare le terre in cui la mafia cerca di agire. Proponiamo la via non violenta per combatterla.

 Che ruolo ha l’Argentina all’interno di questa mafia globalizzata?

 I nostri paesi hanno relazioni di tutti i tipi, sia buone che meno buone. Secondo le notizie a nostra disposizione, l’Argentina è un paese che a causa di queste relazioni culturali e persino familiari si riesce a riciclare denaro attraverso un sistema di deleghe molto semplice. Non credo di svelare alcun segreto se dico che qui lavorano agenti italiani per intercettare l’arrivo del denaro mafioso. Però mi sembra che, fino ad ora, non si siano raggiunti i risultati sperati.

* La traduzione dell’articolo pubblicato su “Clarin”è  di Libera Internazionale (a cura di Francesco Quarta)

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