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Nisida, un documentario racconta storie e volti dei ragazzi

di Bruna Iacopino il . L'analisi

Ci sono tanti modi per raccontare la mafia e il carcere, tanti modi diversi che bypassando il particolare truce, la scena di sangue, cercano invece di mostrare l’umanità che comunque si cela dietro. Il lavoro documentaristico realizzato dai giovani Matteo Barzini e  Francesco Ricci Lotteringi, ispirato ai racconti di Giuseppe D’Avanzo e in concorso alla XII edizione del RIFF (Roma independent film festival) ha esattamente questo merito, quello di aver cercato di raccontare la camorra attraverso le storie e i volti dei suoi ragazzi quelli ospiti della comunità di recupero per minori progetto Jonathan.

Il documentario si apre con una carrellata sui giovani “ospiti” della struttura di Scisciano. I ragazzi si presentano raccontano il motivo per il quale hanno subito una condanna penale… spaccio, rapina, estorsione, sono giovani e anche giovanissimi, dai 16 ai 17 anni, un passato scuro dietro le spalle.

Qualcuno ha il padre in galera, qualcun altro entrambi i genitori, o ancora l’intera famiglia, fratelli e sorelle compresi. Difficile non sbagliare in un contesto in cui la normalità è delinquere e l’onestà non porta da nessuna parte, se non a lavori precari, magari in nero, con paghe da miseria, in contesti problematici. Il clima in comunità è sereno, o almeno così appare, i ragazzi durante il giorno sono impiegati in diverse attività, c’è chi va a lavorare in fabbrica e chi invece fa il meccanico, imparando così ad esercitare un mestiere, imparando soprattutto che ci possono essere anche altre strade da percorrere e una vita diversa tutta da reinventare una volta tornati liberi, mostrando a chi sta dall’altra parte che basterebbe davvero poco, un’opportunità, per far si che molti di questi ragazzi non tornino più a delinquere.

Il pretesto del documentario è tuttavia un altro: il progetto Jonathan da qualche anno, grazie alla collaborazione con Mascalzone latino e Indesit, permette a un gruppetto di ragazzi della comunità ma anche del carcere di Nisida di prendere parte alla regata dei Tre Golfi (un’opportunità davvero eccezionale) in seguito ad una lunga preparazione e le scene finali sono dedicate al racconto dei mesi di preparazione, dell’allegria, di questa nuova possibilità di riscatto educativo che ha nel mare il suo principale agente.

Quello che sembra un premio, spiegano gli ideatori, è in realtà un progetto educativo al pari degli altri. I ragazzi infatti si impegnano, lavorano sodo, e soprattutto si sentono parte di una squadra. “Io guardo sempre il mare” dice un ragazzo detenuto a Nisida “ma stare sul mare e navigare, mi da una grande sensazione di libertà, mi fa pensare immaginare, e quando penso e immagino poi mi viene tristezza, perchè mi chiedo che vita è la mia che sto chiuso dentro il carcere?”.

Sono pensieri a voce alta che la telecamera registra, ruba, in maniera forse illecita a questi ragazzi e a volte verrebbe anche da chiedersi quanto sia giusto, eticamente corretto, riprendere quei volti, fotografarli uno per uno come in una galleria segnaletica, carpirne i segreti più intimi, cogliere gli sguardi per restituirli ad un pubblico esterno…

Il dubbio si insinua, anch’io mi faccio domande… ma mentre cerco di trovare una risposta mi accorgo che ormai quei volti mi sono famigliari, che mi suscitano simpatia, che è come se un po’ li avessi conosciuti tirandoli fuori da quell’insieme oscuro che va sotto il nome di “minori a rischio”… mi accorgo che ho davanti dei ragazzi, poco più che bambini che se solo fossero nati un un contesto diverso probabilmente avrebbero preso anche strade diverse da questa e che basterebbe poco, a volte pochissimo per dargli una seconda possibilità.

Allora il dubbio etico lo metto da parte, finisco di vedere il documentario, appunto mentalmente delle cose che forse andrebbero corrette, e mi tengo in testa solo una domanda: che staranno facendo adesso, chissà se hanno finito di scontare la pena, chissà se una seconda opportunità l’hanno davvero trovata, chissà se il loro Mèdè (May Day, come il nome il titolo del video) è stato raccolto?

Trailer http://vimeo.com/51597936

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Bruna Iacopino

“Lei non è una giornalista è un'attivista”... a distanza di qualche anno quello che voleva essere un insulto è in realtà la mia presentazione, se attivista significa cercare di raccontare mondi marginali, facendolo “dai margini”. Il mio “attivismo” nel mondo dell'informazione inizia circa 10 anni fa in seguito all'incontro con l'associazione Articolo21 e da allora non si è più fermato. Attualmente scrivo per Articolo21, Confronti e I Siciliani giovani. I temi di cui mi occupo più di frequente? Immigrazione, carcere, rom. Perchè sono convinta che è proprio partendo dal racconto degli ultimi che si riesce a fare una buona informazione ed è solo raccontando le storie dimenticate che si ristabilisce un criterio di giustizia ed equità sociale. Quello che fa ogni giorno Liberainformazione.

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