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“Censurare critiche cronista”

di Alberto Spampinato il . Senza categoria

OSSIGENO – Viviamo in uno stato di diritto. Ma non tutti ne sono convinti. Lo fa pensare, ad esempio, ciò che è avvenuto qualche settimana fa a Trapani, nell’aula di giustizia del Tribunale durante il processo per la morte del giornalista Mauro Rostagno, ucciso a Lenzi di Valderice il 26 settembre 1988, processo per omicidio nel quale è imputato come mandante il boss mafioso Vincenzo Virga.

Durante l’udienza, un legale del boss ha chiesto alla Corte di censurare un giornalista perché aveva inserito una critica al suo operato nel resoconto di una precedente udienza. Il pubblico ministero e la Corte hanno respinto la richiesta come irricevibile e hanno invitato l’avvocato a rivolgere le sue lagnanze alle sedi competenti.

L’incidente è nato da un articolo di Rino Giacalone, noto cronista giudiziario trapanese che da anni racconta i misfatti di Cosa Nostra e le sue contiguità con il potere. Giacalone, fra l’altro, è uno dei pochi cronisti che seguono con assiduità le udienze del processo per l’assassinio di Rostagno, un processo infinito che ha imboccato con decisione la pista mafiosa solo nel 2007, dopo che varie altre piste si erano rivelate infondate.

Nell’articolo contestato, Giacalone ha raccontato l’udienza del 7 marzo scorso nella quale ha deposto il giornalista della “Repubblica”, Corrado Augias, che nel 1989, in una puntata del suo programma televisivo “Telefono giallo”, un anno dopo il delitto, si occupò della tragica fine di Rostagno.

La testimonianza di Augias, di fatto, ha smontato una delle principali argomentazioni delle difese degli imputati, secondo le quali il delitto non sarebbe maturato nell’ambito di Cosa Nostra. Giacalone lo ha scritto chiaramente e ha aggiunto questo amaro commento: “La difesa, insiste nel fare rivolgere lo sguardo altrove, azione per carità legittima, ma la sensazione che si continua a provare è quella che in aula non si difendono due imputati… ma Cosa nostra”.

Giacalone lo ha scritto esercitando il sacrosanto diritto di esprimere critiche che, anche quando sono aspre e pungenti, rimangono pur sempre delle opinioni. È una normale prassi giornalistica in ogni parte dell’Occidente, ma a Trapani ha suscitato reazioni impensabili.

L’avvocato Galluffo si è offeso e, citando l’articolo del cronista, ha preso la parola in aula e lo ha  attaccato, definendo l’articolo un insieme di calunniose insinuazioni infamatorie, e ha invitato la Corte a censurarlo, perché Giacalone, nel dileggiare l’operato della difesa, avrebbe accomunato i magistrati del collegio, i quali hanno ritenuto degne di accoglimento alcune richieste della stesa difesa, quindi anch’essi, implicitamente, sarebbero stati accusati di operare in qualche modo a favore di Cosa Nostra…

C’è da restare basiti. E basiti sono rimasti il collegio giudicante e lo stesso pubblico ministero dinanzi a questa protesta dell’avvocato Galluffo. Ne fa fede il verbale dell’udienza.

Anche a nostro modesto avviso la protesta dell’avvocato Galluffo è fuori luogo. Chi vede ferito il proprio orgoglio ha ben poco da recriminare. Chi si ritiene diffamato e può fondatamente sostenerlo può invece querelare in sede penale il giornalista oppure può citarlo per danni in sede civile, ma non può chiedere di punirlo all’istante al collegio giudicante di un processo penale in corso di svolgimento del quale il giornalista ha scritto un commento sgradito.

Il processo penale, ci insegnano i maestri del diritto, ha un capo di imputazione ben definito e ha imputati ben definiti, con i quali nulla c’entra Rino Giacalone. E, anche se avessero voluto, nulla avrebbero potuto fare i giudici del collegio contro di lui. Certamente lo sa bene anche l’avvocato Galluffo.

E allora, che cosa pensare delle sue affermazioni? Che abbia voluto semplicemente sfogarsi? O che abbia voluto esplicitare un segnale poco rassicurante di intolleranza?

Il punto è delicato. I processi sono pubblici per legge ed il racconto giornalistico di essi è uno degli elementi fondanti di una moderna democrazia: simili attacchi, perché di questo si tratta, sono attacchi alla libera stampa. Questi attacchi minano il concetto stesso di libertà di stampa e, al di là delle intenzioni dichiarate, rischiano di isolare i cronisti coraggiosi che in territori difficili raccontano il malaffare.

Questo episodio di Trapani desta preoccupazione e purtroppo non è isolato: prescindendo dal caso specifico, sempre più spesso qualche avvocato cede alla tentazione di scambiare l’aula di giustizia per un palcoscenico televisivo sul quale salire per confondere ed annacquare i fatti, per convincere – se non la Corte – almeno l’opinione pubblica. Di casi di questo tipo sono piene le cronache giudiziarie, soprattutto quando gli imputati sono personaggi noti. Su simili vicende sarebbe opportuno un intervento chiarificatore dei vari Ordini degli Avvocati.

Perché un elemento deve essere chiaro: il ruolo del giornalisti trova limiti invalicabili nel rispetto dei fatti e delle persone e questi limiti devono essere rispettati. Ma anche il ruolo dell’avvocato difensore ha i suoi paletti, ancor più rigidi: quello del difensore è un ruolo di vitale importanza in una democrazia, ed è sancito dalla Costituzione. Proprio per questo va salvaguardato da interpretazioni foriere di insidie: l’avvocato deve tutelare i diritti processuali di un imputato. Non gli compete, di certo, apparire come una sorta di portavoce o di consigliere dell’imputato che assiste. All’avvocato non spetta sposare una causa, ma solo di difenderla in aula, rispettando le parti, ed i giornalisti.

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