Un registro pubblico per i lavoratori agricoli
L’intervista. Poche proposte, ma concrete: abrogazione della Bossi – Fini; liste di collocamento pubbliche; nuova legge sull’immigrazione con estensione dell’Art. 18 della Turco – Napolitano, inasprimento delle pene per il reato di caporalato. Giovanni Gioia, Segretario della Flai – Cgil di Latina, ha le idee chiare su come si può e si deve combattere il caporalato. Probabilmente perché da anni, su quel territorio, si combatte una guerra silenziosa, ma decisa, per i diritti di chi, arrivando nel nostro Paese con la promessa di un lavoro, ha trovato solo sfruttamento e schiavitù.
Come vi siete resi conto di quello che stava accadendo?
Semplicemente muovendoci, girando nei territori dove ci sono grandi e piccole aziende. Non ci è voluto molto per capire quello che stava accadendo, per notare questo esercito di lavoratori che in passato era quasi esclusivamente composto da maghrebini e ora ha lasciato il posto agli indiani del Punjab. C’è stata infatti una vera e propria sostituzione del flusso migratorio, per quanto riguarda il settore ortofrutticolo. In altri comparti, invece, permangono ancora diverse etnie. Molti anni fa, per di più, la popolazione non aveva cognizione del fenomeno, c’era poca sensibilità; nel 2009 ci fu la prima manifestazione e nel 2010, con tutti i rischi del caso, andammo sotto la prefettura con 1000 indiani, tutti clandestini. Da allora, qualcosa sicuramente si è mossa, ma la strada è ancora molto lunga e tortuosa.
La vostra proposta è quella di istituire liste di collocamento pubbliche per i lavoratori dell’agroalimentare. Quali sarebbero luoghi e metodi entro i quali realizzarla?
Innanzitutto alcuni casi – pilota ci sono già stati, sotto il nome di “liste di prenotazione”. L’esigenza, ovviamente, è quella di trovare un luogo che sia il più vicino possibile ai lavoratori, in cui siano presenti tutte le parti sociali. Proprio per questo si pensa di istituire queste liste all’interno dei centri per l’impiego, luoghi pubblici dove enti locali e altri attori possano mettere in piedi una vera e propria task force per il rispetto della legalità. Ovviamente una legge nazionale non è sufficiente. L’obiettivo è quello di rendere inutile la figura del caporale, rendendo invece conveniente per l’azienda il reclutamento della manodopera attraverso le liste.
Prevedendo degli sgravi fiscali, quindi?
Sì, esattamente. E aggiungo subito che sarebbe una proposta a costo zero per le casse dello Stato. Perché i vantaggi che verrebbero destinati alle aziende compenserebbero un sommerso dal punto di vista contributivo e previdenziale che raggiunge cifre stratosferiche. I lavoratori, infatti, verrebbero messi in regola e quindi pagherebbero imposte e contributi previdenziali che attualmente non versano. E, soprattutto, non farebbero più ricorso al sussidio di disoccupazione previsto per i lavoratori dell’agricoltura, che attualmente funge da ammortizzatore sociale, ma per i datori di lavoro.
Durante la campagna elettorale molte forze politiche hanno affrontato il tema della legalità, e in molti hanno legato eventuali soluzioni ad un rafforzamento del lato inquirente. Sarebbe sufficiente?
Sicuramente forze in campo ulteriori sarebbero necessarie, ma non possiamo limitarci a questo. Vanno riviste diverse norme, integrate, corrette. La magistratura deve avere gli strumenti adatti, pezze d’appoggio valide per istruire un processo e garantire pene severe. Ricordo solo che il reato di caporalato è stato istituito nel 2011, nonostante da diversi anni fosse un fenomeno acclarato. Per di più bisogna essere colti in flagranza, ovvero essere trovati con un bracciante incatenato, cosa che difficilmente accade. A conti fatti, poi, le pene sono irrisorie: 50 euro di multa per ogni lavoratore. Proprio per questo dico che incrementare soltanto il lavoro delle forze dell’ordine non è sufficiente. Anche perché con Maroni Ministro dell’Interno ci sono stati numerosi blitz, ma di scarsa efficacia: fuggi fuggi generale, espulsioni, ma nulla che potesse incidere davvero o disincentivare il fenomeno. Sicuramente un atto al momento necessario è l’abrogazione della Bossi – Fini.
Come mai si rende così urgente?quali potrebbero essere i punti cardine ipotetici di una nuova legge?
L’urgenza è data dal fatto che attualmente, grazie alla Bossi – Fini, i migranti irregolari vengono immediatamente espulsi. Molti si trovano quindi nella posizione di non poter denunciare la loro condizione di schiavitù proprio per paura di essere scoperti e rimpatriati. Ci sono ovviamente i cosiddetti “permessi per motivi umanitari”, che solitamente vengono concessi ai lavoratori che denunciano e si fanno avanti, ma sono casi eccezionali, a cui una deroga speciale non è in grado di far fronte. Anche per questo noi chiediamo che venga esteso a tutti i lavoratori irregolari che denunciano l’Art. 18 della Turco – Napolitano, che prevede l’erogazione del permesso di soggiorno per motivi di “protezione sociale”.
E dovendo pensare ad una nuova normativa?
Intanto vorrei dire che un’altra assurdità della Bossi – Fini è che il lavoratore, per ottenere il permesso di soggiorno, deve arrivare in Italia con un lavoro già in tasca. Una cosa francamente rara, anche a causa della pesante burocrazia che comporta per il datore, ma che comunque rimane un criterio inaccettabile. Anche perché il reclutamento che c’è attualmente nei paesi d’origine si è constatato essere quasi sempre poco pulito, contornato da richieste estorsive. Insomma, si è finiti per alimentare un meccanismo malsano. Noi pensiamo ad un sistema di regolamentazione più aperto, flessibile, che fornisca tutti gli strumenti necessari agli immigrati per integrarsi. Naturalmente chi non rispetta le regole va espulso, ma spesso chi arriva qui trova un sistema che incentiva l’illegalità.
Nel territorio di Latina il caporalato è un fenomeno di larga scala. E dietro si intravede molto chiaramente la mano della criminalità organizzata. Come si aiuta un immigrato ad affrancarsi da questo sistema?
Sì, sicuramente la criminalità organizzata, soprattutto la camorra, in quest’ambito ha un ruolo importante, di intermediazione tra datori di lavoro e caporali. Naturalmente non è facile parlare con i lavoratori, convincerli che devono chiedere e pretendere che il datore rispetti le regole, dirgli che hanno dei diritti inviolabili. Spesso c’è un problema linguistico, perché in pochi parlano e comprendono l’italiano. Ma, soprattutto, c’è molta paura. Le ritorsioni possono essere pesanti e diversi indiani hanno subito intimidazioni per aver aderito al sindacato. Ma posso dire che già solo il fatto di far capire che non devono consegnare il passaporto al datore, il permesso di soggiorno non va pagato, aiutarli a leggere i contratti sono passi avanti enormi.
Lo scenario è molto cupo, e i dati indicano percentuali consistenti di irregolarità da parte delle aziende. Esistono anche esempi virtuosi?
Assolutamente sì. Lentamente si sta inverando una presa di coscienza da parte anche del mondo delle imprese per cui non è così scontato che delinquere sia conveniente. Non voglio dire che il problema sia risolto, anzi. Ma accanto ad esempi poco edificanti ci sono molte aziende che hanno deciso di stare nella legalità. Aggiungo, però, che molte imprese vengono costrette a rivolgersi ai caporali, e vengono minacciate. Una sorta di doppia violenza, che vorremmo cercare di arginare dando una mano.
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