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«Vincenzo Santapaola e Cosa No­stra a Catania»

di Claudia Campese* il . Sicilia

Continua a Catania, dopo la pausa estiva, il procedimento originato dalle indagini sulle presunte collusioni tra mafia, politica e imprenditoria in città e nella provincia. Ad animare le lun­ghe udienze sono le deposizioni dell’ex esponente del clan Santapaola, colla­boratore di giustizia dall’aprile 2012. Che racconta di una famiglia crimina­le litigiosa, alle prese con il tentativo di ricostruire il proprio potere e la cosid­detta “bacinella”, il fondo cassa comu­ne alimentato dalle estorsioni alle im­prese.

«Nel 1998, quando sono uscito dal car­cere, ho rincontrato Vincenzo Santapao­la. Ma aveva una posizione diversa ri­spetto a prima: era il capo». Con i suoi racconti da collaboratore di giustizia ha riempito le pagine di 14 verbali, ma al momento la dichiarazione più importante di Santo La Causa, ex esponente del clan etneo Santapaola, resta questa: aver dato un nome e un volto – ancora da confer­mare – al presunto capo della storica fa­miglia catanese di Cosa nostra.  Enzo, fi­glio di Nitto Santapaola, un ruolo tra­mandato di padre in figlio ma con mag­giore discrezione rispetto al pas­sato.

«Era coperto dal resto dell’associa­zione, in pochi sapevamo della sua posi­zione. Lui ci metteva la faccia solo quan­do era necessaria una conferma», raccon­ta La Causa nelle sue lunghe deposizioni du­rante la seconda stagione del rito ordi­nario del processo Iblis in corso a Cata­nia. Un’indagine sulle presunte collusioni tra mafia, politica e imprenditoria in città e nella provincia. Un unico filone da cui si sono ormai staccati una decina di pro­cessi, tra cui quelli che coinvolgono l’ex go­vernatore siciliano Raffaele Lombardo e il fratello Angelo, deputato nazionale Mpa, accusati di concorso esterno in as­sociazione mafiosa. Ma, alla ripresa post estiva delle udienze, il vero protagonista è lui: Santo La Causa, considerato dai magistrati uno dei reggenti del clan etneo fino al suo arresto nel 2009, collaborato­re di giustizia dall’aprile 2012.

In aula, collegato in videoconferenza da un sito riservato dove si trova agli ar­resti domiciliari, La Causa racconta di una famiglia, il clan Santapaola, litigiosa e con un prestigio ai suoi minimi storici. «Dalle riunioni con i Lo Piccolo di Paler­mo erano emersi due obiettivi comuni: rimettere in sesto Cosa nostra nelle varie province in Sicilia e gli appalti, la gestio­ne dell’edilizia pubblica». Per raggiun­gerli, racconta il collaboratore, Vincenzo Santapaola stava cercando di riportare l’ordine tra i suoi stessi affiliati e rendere più efficiente e organizzato il sistema della bacinella: il fondo cassa comune alimentato dalle estorsioni alle imprese.

Le riunioni si svolgevano sempre in posti diversi: case procurate da persone vicine all’organizzazione, ristoranti, campagne, capannoni alla zona industriale. Quasi mai sempre gli stessi, perché il caso è sempre dietro l’angolo. Capita di trovarsi al ristorante, nel tavolo accanto, le forze dell’ordine. O di accorgersi, con un sofi­sticato e nuovo sistema di rilevamento, della presenza di microspie. Com’è suc­cesso a casa del geologo Giovanni Bar­bagallo, uomo d’onore secondo i pentiti e condannato nel rito abbreviato di Iblis a nove anni e quattro mesi di carcere: «Il gruppo ristretto si vedeva spesso lì. Enzo Aiello (tra i vertici del clan ndr) ci anda­va anche a dormire quando a Catania c’era un po’ di maretta».

Stabilito il piano, si passava al contatto con gli imprenditori. Non im­posta se amici o membri stessi di Cosa nostra, «chiunque avesse per le mani un affare, doveva pagare. Magari di meno, ma tutti dovevano contribuire alla baci­nella». E non con una cifra a caso: alme­no cinquemila euro. Con meno, si ri­schiava di far fare brutta figura all’inter­mediario.  «Cu cuali facci mi ci appresen­to ro ziu (Nitto Santapaola ndr) cu 1500 euro? Chi stamu cugghiendo l’elemosi­na?», rac­conta La Causa di aver sentito dire a un affiliato. Per andare incontro all’impren­ditore però, «per far calare me­glio il re­galo, venivano promessi diversi appalti». Com’è successo all’imprendito­re France­sco Pesce, anche lui imputato nel proces­so, con il centro commerciale etneo Te­nutella, poi mai costruito.

Ma se l’organizzazione dello speciale fondo-bacinella procedeva con pochi intoppi, a impensierire di più Enzo Santa­paola era l’altro obiettivo: riportare l’ordi­ne nella famiglia. Litigi, egoismi e manie di protagonismo ad opera soprattutto di Angelo Santapaola, secondo il capo di Cosa nostra etnea. Pur sempre un paren­te, cugino del padre Nitto, ma troppo in­disciplinato. Uno che, ancora prima di essere affiliato, già faceva di testa sua e non portava nemmeno i soldi alla baci­nella, tenendoli per sé.  «Fino a quando Vincenzo Santapaola non ci disse “Sape­te cosa dovete fare”», racconta La Causa. Ucciderlo, insieme al suo fedelissimo Ni­cola Sedici, nel set­tembre del 2007 in un macello in disuso alla zona industriale et­nea.

«Dopo abbia­mo dovuto tranquilliz­zare i gruppi vicini ad Angelo Santapao­la, come quel­lo di Picanello, che temeva­no di fare la stessa fine», continua il col­laboratore. A rassicurare tutti, bastò la presenza di Vin­cenzo Santapaola: «”Non c’era bisogno che ti scomodavi a venire di persona”, gli dissero». L’omicidio sarà uno degli ulti­mi ordini importati eseguiti da La Causa prima della scelta definitiva del penti­mento. Uno tra i «quattro, cin­que o sei, non ricordo» omicidi ammessi dal colla­boratore.

«Da tempo ero insoddisfatto, ma sape­vo che tagliare con quel tipo di vita è possibile solo da morti. E forse è una li­berazione», racconta. Eppure, durante una carcerazione proprio insieme ad Enzo Santapaola, La Causa ci aveva pro­vato a chiedere il pensionamento. «La sua riposta fu “Ti do la mia benedizione” e io gli credetti. Fui contento, ma non era vero».  Una richiesta inusuale, frutto an­che della confidenza tra i due. La Causa e Santapaola jr si incontrano per la prima volta in carcere, proprio a Biccoca dove oggi si svolge il processo, ma negli anni ’90. Condividono la permanenza anche in altri istituti, come l’Asinara, L’Aquila e Parma. Entrambi al 41 bis, ma capaci di comunicare. «Enzo Santapaola aveva il suo metodo – spiega il pentito – Si fa­ceva recapitare i bigliettini cuciti nelle maniche degli accappatoi».

Non solo messaggi, ordini e contatti con l’esterno. A Parma, i due si ritrovano proprio in due celle l’una di fronte all’altra. «E ogni tanto Enzo mi tirava attraverso le sbarre dei pacchettini con i dolcetti fatti da lui». Ma anche la spesa necessaria a cucinare gli arancini, «quelli catanesi che so fare io», dice La Causa.  Scene di vita quotidiana che non impe­disco al collaboratore di fare la sua scel­ta. «Perché mi sono pentito? Ero insoddi­sfatto, alla mia famiglia dovevo un cam­biamento di vita. E questo purtroppo era l’unico modo. Cioè, purtroppo…».

Ep­pure lui, tra tutti i pentiti della fami­glia Santapaola, è l’unico a indicare il fi­glio di Nitto come il capo, contestano i legali della difesa. La risposta di La Cau­sa è secca, come accade di rado nei suoi rac­conti: «Gli associati si ricordano an­cora di quando per mezza parola ci si ritrovav­a incaprettati nel cofano di una macchina. Certo, allora Enzo Santapaola era un bambino. Ma oggi è il capo e sem­pre Santapaola fa di cognome».

Inchiesta di Claudia Campese per I Siciliani Giovani 

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