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Dal Cie di Ponte Galeria, un racconto

di Bruna Iacopino il . Senza categoria

Giornalisti? Non se ne vedono poi così tanti…” la riposta che mi da la dott.ssa Agostini, responsabile presso il Cie di Ponte Galeria dell’Ufficio immigrazione della Questura di Roma mi lascia un po’ perplessa. “In media uno al mese circa…” Nonostante l’ampia mobilitazione promossa da validi colleghi, per la maggior parte giovani free lance, l’appello di LasciateCientrare non sembra aver sortito l’effetto sperato, che, si era quello di ottenere la revoca della circolare Maroni, ma era anche e soprattutto un input aggiuntivo al mondo dell’informazione, una spinta ad occuparsi di luoghi in cui immigrati irregolari o richiedenti asilo trascorrono periodi relativamente lunghi, in attesa di un documento o di un foglio di via o semplicemente di un aereo, che, in alcuni casi in maniera coatta li riporti verso i paesi di provenienza. Luoghi che diventano notizia solo nella misura in cui si verificano incidenti più o meno gravi o fughe eclatanti, ma che, in generale gravitano in un silenzio che coincide pericolosamente con il limbo all’interno del quale la maggior parte dei reclusi o, come si dice in gergo, “ospiti” delle strutture, si trovano a sopravvivere giorno dopo giorno, mese dopo mese in attesa che un giudice decida della loro sorte. Tempi che solo in parte e naturalmente con le dovute proporzioni possono essere paragonati a quelli di un giornalista che decida di visitare la struttura. Tempi burocratici fatti di richieste da inviare via fax, autorizzazioni che stentano ad arrivare, telefonate e rinvii.

Oggi al Cie si respira un’aria poco tranquilla: il braccio maschile mi viene vietato, per motivi di ordine e sicurezza, sembra che nella mattinata siano scoppiate un paio di risse sedate dall’intervento delle forze dell’ordine e precedute da disordini già nei giorni scorsi. L’unico lato che posso visitare con calma è quello dedicato alle donne, 53 in tutto, in buona parte nigeriane, mentre gli uomini sono 118 in prevalenza magrebini e nella maggior parte dei casi provenienti dal circuito carcerario, dove già hanno scontato una pena commisurata al crimine commesso. Ai tempi della pena, certi definiti, si unisce dunque il tempo dell’incertezza in attesa che i consolati procedano con i riconoscimenti e successivamente possa essere effettuato il rimpatrio o che il giudice decida per la convalida o meno del trattenimento. E i tempi di permanenza possono così variare, dalle poche settimane ad un massimo di 7/8 mesi, che, in termini pratici significano costi di mantenimento: vitto e alloggio ( circa 41 euro a persona secondo un’inchiesta del Redattore sociale, molti di più secondo quanto mi suggeriscono dall’interno del Cie), spese di manutenzione ordinaria e straordinaria, spese del personale di polizia e del personale impiegato dall’ente gestore, attualmente l’Auxilium, più un buono di circa 7 euro che viene dato quotidianamente agli ospiti per l’acquisto di beni di prima necessità all’interno del piccolo spaccio che si trova dentro il centro, spese per i farmaci.
“La legge italiana funziona male” mi dice in perfetto italiano una donna rom, nata in Serbia, apolide di fatto “ perché lo stato paga tanti soldi per tenermi qua dentro quando io ho una casa a Roma dove vivo con i miei 6 figli fra cui una minorenne?”. Ivana ( nome di fantasia) si trova dentro il Cie per la terza volta consecutiva: “ E dove mi dovrebbero mandare? La mia casa e la mia famiglia sono a Roma, se tornassi in Serbia non saprei che fare?” Ma Ivana non è l’unica c’è anche una ragazza molto giovane, a guardarla le si potrebbero dare 18 anni al massimo, nata e cresciuta in Italia ma senza la cittadinanza italiana, che attende, come Ivana che un giudice “buono” capisca che lei non deve stare là dentro perchè non ha fatto niente di male. I casi si moltiplicano, ognuna delle donne che incontro vorrebbe raccontare la propria storia. C’è chi in Italia ci sta da più di vent’anni, e chi come A. ( singalese) ci è arrivata da 7 e fuori ha un figlio di 2 anni e mezzo e un marito che l’aspettano, chi ha un compagno italiano e per questo ha subito la ritorsione dei famigliari di lui, chi dopo un lavoro da badante irregolare si è ritrovata denunciata e portata a Ponte Galeria. Le nigeriane sono le più chiassose, per passare il tempo intrecciano fili per farne extension per i capelli e cantano a squarciagola quando qualcuna riesce ad uscire, le cinesi invece rimangono in silenzio in disparte. La psicologa dell’Auxilium che mi accompagna in questo viaggio tra le gabbie del centro mi assicura che ognuno può disporre della mediazione linguistica e culturale e dell’assistenza medica e legale, mentre la libertà religiosa viene garantita da due luoghi di culto separati: uno adibito a moschea e l’altro a chiesa.
E durante la giornata cosa si fa? Lo chiedo alle recluse che mi guardano con la faccia rassegnata e un sorriso sarcastico: “ C’è il televisore, guardiamo la Tv…” mi risponde una donna sulla quarantina con un marcato accento romano e una faccia provata. “ Poi nient’altro, non ci danno la possibilità di tenere neanche una penna, ma se noi volessimo davvero farci del male lo faremmo anche usando le lenzuola…”
Tra le sbarre campeggiano infatti cordoncini fatti con lenzuola di carta intrecciate che servono da stendibiancheria per le poche cose da lavare e mettere ad asciugare all’aperto nelle giornate di sole.
Tra le indicazioni che si possono trovare nella sala adibita a colloqui all’ingresso c’è una lunga lista di cose che non è possibile introdurre, fra cui spiccano curiosamente anche “cibi deperibili e liquidi di entità superiore al mezzo litro”. “Il cibo qui non è buono” si lamentano le “ospiti”… “ sono tre giorni che mangiamo pasta col pomodoro e poi cambia il secondo, ma io ho mal di pancia da tre giorni” mi dice una ragazza con le lacrime agli occhi. “E da fuori non fanno arrivare nulla…” Per molte di loro è difficile anche vedere i parenti stretti, perchè in molti casi neanche loro posseggono i documenti, allora questi si limitano a portare delle cose, magari la biancheria e lasciarla fuori dal cancello con un’indicazione in maniera tale che qualcuno poi la possa recapitare; ma i casi più pesanti, sono le madri che hanno figli fuori e molte volte non sanno a chi affidarli.
Le camerate, dentro le larghe gabbie, accolgono dalle 4 alle 6 persone per stanza suddivise per paesi di provenienza; separati da altre sbarre si trovano i locali della mensa, una piccola biblioteca con un po’ di libri all’interno e qualche disegno infantile attaccato alle pareti, e la parrucchiera, forse il luogo più frequentato. “Come operatori- mi racconta l’operatrice dell’Auxilium- abbiamo cercato di realizzare attività ricreative, cineforum, attività di arte-terapia, ma con scarso successo e pochissimo interesse. Le persone che si trovano qua dentro vivono questo posto come un luogo di passaggio e sperano che la loro permanenza duri il meno possibile, fargli fare attività alternative viene visto come una presa in giro…” E questo a discapito della proposta avanzata dalla Comunità di Sant’Egidio che, come riferito dalla dott.ssa Agostini, dovrebbe iniziare, a partire dal nuovo anno, con un progetto in tal senso che prevede, tra le altre cose, anche corsi di lingua italiana.
La folla in cortile si raduna e si disperde. Si fa largo tra tutte una signora minuta, ecuadoregna dall’età indefinita: “ Una signora mi ha fatto portare qua dentro… diceva che le avevo rubato il portafogli, ma non era vero e quando è arrivata la polizia ha detto che non che aveva tutto nella borsa me che non sopportava i sudamericana, basta sudamericani diceva, allora mi hanno chiesto i documenti ma io non li ho e mi hanno portata qui…” Fuori ha una nipote di 13 anni che l’aspetta, ma il giudice non ha ancora deciso del suo destino, aspetta anche lei, come tutte le altre, come le nigeriane rosario in mano e sorriso sulle labbra. Per loro gli operatori sono tutte brave persone e anche la polizia, ma è la legge che non va è lo stato italiano che non riescono a capire. “ Riprendi tutto così Berlusconi può vedere” mi invita una vivace signora nigeriana, più di vent’anni in Italia, venditrice ambulante con un permesso di soggiorno scaduto.
Dal braccio maschile arrivano solo echi lontani, a un certo punto si leva puzza di bruciato, forse qualcuno ha incendiato suppellettili come forma di protesta, del resto non sarebbe la prima volta. “Gli stranieri ( maschi) rompono tutto, sfasciano…” mi avevano già detto all’Ufficio immigrazione, prima di farmi entrare. E sono anche quelli più dediti agli atti di autolesionismo, come mi viene confermato in infermeria e ad aggressioni, mi suggeriscono le mie guide, a danno degli stessi operatori.
Il dedalo di stanze e gabbie a cielo aperto ha qualcosa di asfittico, come asfittici, mi confermano le donne, sono i servizi igienici: “ devi entrarci con il naso tappato”. Mentre esco dalle gabbie e dalle porte che si aprono solo al passaggio di un badge, accompagnata da un agente, mia “scorta” per tutto il tempo, qualcuno è appena arrivato, due ragazzi di colore, li vedo trafficare con buste e indumenti, la sala delle udienze è un via vai di gente, mentre in sala colloqui non si vede nessuno, sebbene l’orario sia quello giusto, dalle 9 alle 13. Le donne rimangono sedute a chiacchierare piano dietro le sbarre. Il cancello all’ingresso si chiude alle spalle con un rumore sordo, dietro di me due blindati della polizia: mi chiedo se la cosa sia legata in qualche misura al braccio maschile. Quello che rimane è solo lo sfinimento di un viaggio, fatto attraverso le storie  e i volti delle persone, un viaggio in un non luogo, e dove il non detto e il non visto, forse, rappresentano il dato più rilevante.

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