Rai Storia, il maxi processo a Cosa nostra 25 anni dopo
no spartiacque per la storia della mafia e dello Stato: il maxi processo di Palermo 25 anni dopo la storica sentenza di primo grado che condannò centinaia di uomini d’onore e svelò all’Italia i segreti della mafia siciliana in onda in due puntate, sul canale Rai Storia del Servizio pubblico radiotelevisivo. Di quel processo prima dell’inizio del dibattimento, il 10 febbraio 1986, della mafia si conosceva ancora poco. Saranno soprattutto i pentiti protagonisti del processo a svelare segreti e retroscena dell’organizzazione, a cominciare dal nome: Cosa Nostra. Su tutti, Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, due uomini d’onore usciti sconfitti dalla seconda guerra di mafia, e ai quali i Corleonesi, le famiglie mafiose vincenti, avevano ucciso parenti e amici. L’approfondimento “Maxi+25- Anatomia di un processo” racconterà la genesi del processo, con l’istruttoria firmata da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e dagli altri giudici del pool antimafia, e il delicato percorso che portò nell’aula bunker di Palermo, appositamente costruita, ben 475 imputati. “Giovanni Falcone – racconta il Procuratore Nazionale Antimafia, Pietro Grasso, giudice a latere nel maxi processo – si impose perché il dibattimento si svolgesse a Palermo, rifiutando la proposta di spostarlo a Roma. «Questo processo è stato istruito dai giudici palermitani – sosteneva Falcone – e devono essere i giudici palermitani a processare la mafia». Interviste, immagini di repertorio, mafiosi alla sbarra e tanto altro raccontano anche il dietro le quinte di quel processo che occupò le prime pagine di giornali e tv, non senza polemiche. Lo fa attraverso i testimoni dell’epoca ma anche con i momenti più importanti, le dichiarazioni dei pentiti, che si svolsero in aula e incastrarono Pippò Calò, Michele Greco, Luciano Liggio, i grandi padrini finalmente alla sbarra, o uomini come Bernardo Provenzano e Totò Riina, condannati all’ergastolo benché latitanti. «La soddisfazione di vedere la mafia in faccia – ricorda nel servizio, il giudice Giuseppe Ayala – era pari al senso di responsabilità per il compito a cui eravamo stati chiamati»
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