Giornalismo, cosa cambia con l’approvazione della legge sull’equo compenso
In principio fu lo sciopero dei migranti lavoratori stagionali che a Rosarno incrociarono le braccia contro i caporali e la ‘ndrangheta, scesero in piazza e in mano tenevano cartelli con la scritta “Oggi non lavoro per meno di 50 euro”. Una richiesta di diritti in una terra dove la democrazia è violata da mafiosi e corrotti che soffocano anche il mondo del lavoro. Poi venne il tempo dei giornalisti, che quelle proteste per i diritti e molte altre avevano raccontato, senza sapere se e quando sarebbero stati pagati per i loro articoli, per le notizie che in alcuni territori potevano costare anche minacce, intimidazioni, aggressioni fisiche, querele temerarie. Manodopera sfruttata, anche quella. Sono spesso freelance, giornalisti autonomi a partita Iva, collaboratori esterni di testate giornalistiche in cui per molti anni il ricatto della passione per questo mestiere è stato più forte della difesa del diritto ad un equo compenso per il lavoro svolto. Sono giornalisti invisibili ma consentono la realizzazione di giornali, on line e cartacei, senza di loro buona parte dei giornali si fermerebbe. Ieri una legge del parlamento, dopo un lungo iter partito dalla protesta dei precari e arrivato ai politici, se ne occupa. Ne abbiamo parlato con Raffaella Cosentino, giornalista collaboratrice dell’agenzia Redattore Sociale e Repubblica Inchieste ma soprattutto autrice del primo ebook (Quattro per cinque ) che raccoglie le storie di giornalisti precari e spesso anche nel mirino di malaffare e mafie, sfruttati da grosse testate giornalistiche.
Perchè i giornalisti hanno impiegato cosi tanto a trovare il coraggio per chiedere un diritto basilare come quello all’equo compenso?
E’ stato difficile per tanti motivi, non solo interni alla categoria. Quando abbiamo iniziato a raccogliere le storie di “Quattro per cinque” e lanciammo la campagna correlata ci siamo accorti che quelle erano solo la punta dell’iceberg di un mercato sommerso che reggeva l’intero mondo dell’informazione. Così la fotografia che veniva fuori da quell’ebook era quella di un giornalismo dei garantiti, entrati nel mestiere tanti anni fa e uno dei giovani, precari senza contratto, a partita iva, free lance, che per poter lavorare non denunciavano i casi di sfruttamento. Così mancava tutto, nella legge in vigore non c’era (sino a ieri) nessun riferimento agli “invisibili” e in presenza di zero regole il mestiere valeva (e vale) niente. Così rischi la vita per scrivere di ‘ndrangheta in Calabria ma non hai alcuna tutela dalla testata per cui scrivi e non sai nemmeno quando e se verrai pagato per quell’articolo. Il silenzio di questi anni è dovuto anche al tipo di mercato del lavoro: quello del giornalismo è un mercato chiuso, le testate sono quelle, i caporedattori anche, se “fai storie” per un pagamento mancato o irrisorio nella cifra, davanti a te si chiudono a catena tutte le altre possibilità. Po ci sono solo il ricatto, l’isolamento e la solitudine. Tutto questo frenava tantissimi e riduceva a zero le denunce.
E poi cosa è accaduto?
Una convergenza positiva ha fatto si che da un lato la campagna “Quattro per cinque” cominciasse a portare il tema all’attenzione degli organismi di categoria e dell’opinione pubblica. Dall’altro la nascita di coordinamenti di giornalisti precari, dalla Campania al Lazio, ha dato la forza di saldare in un’unica, sebbene complessa battaglia, questa richiesta di diritti. Infine: se quel testo oggi è legge dello Stato è merito di singole persone che si sono spese perché questo testo andasse avanti. Senza togliere nulla ad altri, fra questi il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino, i politici che in parlamento hanno pressato perchè il testo andasse avanti, fra loro Beppe Giulietti. Ma soprattutto i giornalisti precari, i tanti coordinamenti, che dalla Carta di Firenze in poi non hanno mai smesso di seguire l’iter della legge e di far circolare le storie, di spiegare che denunciare è possibile.
Cosa cambia con l’entrata in vigore di questa legge?
Un punto su cui c’eravamo tanto battuti è che venissero tolti i contributi pubblici alle testate che sfruttano i giornalisti collaboratori. Chi non è in regola con la legge deve sapere che non può farla franca. Inoltre la legge dovrà stabilire (lo farà una commissione entro i prossimi tre mesi, ndr) un equo compenso e su questo bisognerà esseri vigili. Io credo che il modello cui dovremmo guardare sia quello già sperimentato nel Nord Europa, paesi con ottima qualità giornalistica e situazione dei lavoratori. Si tratta del pagamento a ore: fatturo in relazione alle ore di lavoro. Talvolta dieci righe di una notizia scomoda o inedita costano giorni e giorni di lavoro, viaggi, spostamenti e rischi che non è possibile ridurre al numero di battute. Ma cercando di andare oltre gli aspetti tecnici per tutti i giornalisti precari questa legge segna un punto di svolta: adesso c’è una legge in Italia che parla di loro. Che prevede dei diritti, delle regole e che condanna lo sfruttamento. E’ un passo avanti, una battaglia vinta ritrovando il coraggio che in passato era mancato. E’ un segnale diretto agli editori, ai direttori e ai capiredattori, a chi imponeva lo sfruttamento e a chi ne era complice.
Qualche giorno fa Lsdi ha presentato la ricerca “La fabbrica dei giornalisti” che ha fotografato fra gli altri un dato: in Italia aumentano i giornalisti ma sono tutti precari. Cosa ne pensi?
Si tratta di un argomento complesso e delicato. In generale nel mercato del lavoro, in tempi di crisi, aumenta la domanda e diminuisce l’offerta a causa della contrazione economica. Nel mondo giornalistico si sono aggiunte altre varianti. Per esempio, in tanti scelgono di lavorare gratis, soprattutto con la diffusione in massa del giornalismo on line e il risultato è che “se fai il lavoro che sai fare per niente, il tuo lavoro varrà niente”. Inoltre, il precariato è diventato non una fase di passaggio ma una condizione di lavoro permanente. Per molti di noi non ci sarà il passaggio, che si verificava un tempo, dell’ingresso nelle redazioni con contratti strutturati. C’è, inoltre, da sfatare un mito che circonda questo mestiere: che porti fama, successo, lavoro. A farlo dovrebbero essere soprattutto quelli che dentro le macchine organizzative dei giornali ci sono e sanno qual è la situazione. Servirebbe raccontare la verità. Ma siamo ancora lontani da questo.
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