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Ribellarsi sarebbe la rivoluzionaria risposta a un potere mafioso e patriarcale

Silvia Buzzelli* il . Lombardia, Progetti e iniziative

(a proposito del Seminario interuniversitario “Donne e mafie”)

Quello che si è svolto giovedì 8 novembre, nell’Università di Milano-Bicocca, è stato un seminario partecipato, impegnativo, ricco di spunti per riflettere su di un tema delicatissimo: donne e mafie.

Ad aprire i lavori – dopo i saluti, non retorici, di Carmen Leccardi (direttrice scientifica di ABCD, Centro per lo studio dei problemi di genere dell’Università di Milano-Bicocca) e di Gorla (per l’Osservatorio sociale mafie in Lombardia) – Ombretta Ingrascì (Università Cattolica di Milano) che da tempo indaga il fenomeno della partecipazione femminile alla vita criminale.

Cercando di evitare i luoghi comuni che finiscono spesso per essere fuorvianti (al pari delle espressioni stereotipate: “boss in gonnella”, “lady boss”), la studiosa ha evidenziato il doppio e contraddittorio ruolo assunto dalle donne: da un lato, capaci di trasmettere il codice mafioso, incoraggiando addirittura la vendetta (lo svelano certe intercettazioni telefoniche acquisite nel corso dell’operazione Artemisia-2009 e relative alla faida di Seminara, un paese di circa 3.000 abitanti nella piana di Gioia Tauro); dall’altro, vittime, costituendo esse stesse merce di scambio, costrette a sposare, talvolta, i killer dei loro cari per mettere fine alla faida e rafforzare le alleanze. Di certo, gli anni a cavallo tra il 1970 e il 1980 hanno registrato una profonda trasformazione del panorama complessivo, a causa dei modificati circuiti criminali (incomincia a prevalere, infatti, il traffico di stupefacenti su altre attività) e del più generale cambiamento socio-politico, dovuto alle rivendicazioni femministe: e di simili involuzioni/evoluzioni non si può non tener conto quando si affronta l’universo criminale femminile. Capita di imbattersi, oramai, in donne capo mandamento (come Giusy Vitale) o in grado di gestire, e mantenere con delega temporanea, il potere mafioso (è il caso di Cinzia Lipari, avvocato e figlia di un sottopposto di Bernardo Provenzano).

Ma l’autentico punto di rottura, l’affrancamento da ogni meccanismo della famiglia (pure con la “effe” maiuscola) passa dalla collaborazione: ne è esempio la scelta coraggiosa di Giuseppina Pesce (e inducono a meditare le sue parole e il drammatico rapporto con la figlia che, dapprima, disprezza la madre, poi pian piano incomincia a comprenderne l’atteggiamento).

Una donna come lei è lontana, assai lontana, dalle detenute in regime di Alta sicurezza che parlano, riempiono lo schermo con una gestualità a tratti pericolosamente affascinante, popolando il documentario di Caterina Gerardi, girato nel carcere femminile di Lecce (Nella Casa di Borgo San Nicola. Con le donne, nel carcere – 2009). Il DVD, trasmesso nel corso dell’incontro, e commentato alla fine, in maniera puntuale, da Monica Massari (Università Federico II di Napoli) incanta forse troppo, pervaso com’è dal tema della maternità, del distacco dai figli, che torna ossessivamente in ogni intervista dietro le sbarre. Manca, invece, una domanda (magari la più imbarazzante) sul senso di appartenenza alla famiglia criminale e sui “valori” presenti in quella famiglia.

Al termine dei lavori, Antonella Pasculli (Università di Bari) ha presentato i risultati di alcune indagini, volute a suo tempo dalla giunta del sindaco Emiliano, per monitorare la situazione nella provincia di Bari; un’analisi a parte è stata rivolta al clan Capriati, attivo nella Bari vecchia. L’esegesi della giurisprudenza, quindi di molte e complesse sentenze, è servita per capire se la “categoria” del concorso esterno (ai sensi dell’art. 416-bis codice penale) si adatti o meno ai ruoli criminali femminili.

E con un bagaglio di informazioni e di ulteriori punti da approfondire si è chiuso il seminario.

* Professore di procedura penale europea e sovranazionale

Facoltà  di Giurisprudenza Università di Milano Bicocca

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