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Ossigeno: «In Italia clima di intimidazione, limitata la libertà di stampa»

Di redazione il . Interviste e persone, Lazio

Proteggere la libertà di informazione e il diritto ad essere informati. Servono leggi più efficaci, mirate a tutelare chi dà le notizie e chi le riceve. Ma serve una nuova coscienza di questo “bene comune” che se negato lede diritti costituzionali. “Servirebbe quasi una nuova coscienza collettiva, come quella che è maturata negli ultimi decenni rispetto all’ambiente. Una coscienza dell’informazione. Così Alberto Spampinato, giornalista e consigliere della Fnsi, ma soprattutto direttore dell’osservatorio da lui fondato insieme a Ordine e sindacato dei giornalisti, “Ossigeno per l’informazione”, spiega perché serve liberare il giornalismo da minacce e censure. Che spesso possono portare anche a perdere la vita. Come è accaduto al fratello, Giovanni Spampinato, ucciso per aver cercato la verità, scrivendo notizie che gli altri avevano ma nascondevano negli anni 70 in Sicilia. Da quel percorso personale nasce nel 2009 una risposta organizzata e lungimirante che porta una nuova consapevolezza del problema dentro la categoria dei giornalisti ma – come spera in questi anni, Alberto – “anche nei cittadini che hanno diritto ad una informazione libera nel nostro Paese”. Lo abbiamo intervistato per parlare di libertà d’informazione nei giorni dell’iter parlamentare del Ddl sulla diffamazione, per parlare del rapporto 2011-2012 e dei percorsi futuri
L’Osservatorio ha presentato in queste settimane il rapporto annuale 2011/2012 in merito al fenomeno dei cronisti minacciati e delle notizie oscurate. Cosa è emerso?

In questo rapporto, consegnato al presidente della Repubblica, del Senato e della Camera, facciamo una lettura aggiornata della situazione e una analisi del fenomeno. Negli ultimi sei  anni nel nostro Paese quasi 1200 giornalisti sono stati  minacciati e intimiditi. L’esperienza di questi anni insegna che i casi che noi riusciamo a rendere pubblici sono uno su 10 di quelli che si verificano, all’interno di una categoria che conta  110mila iscritti all’albo. Questo ci fa affermare con certezza che in Italia c’è un clima di intimidazione diffuso che limita libertà d’informazione. Questa dovrebbe essere la cornice intorno alla quale parlare di  informazione nel nostro paese. Noi pensiamo che questo dato, quello dei cronisti minacciati, sia grave come quello  dello  spread economico,  è un fattore che incide su tutta la salute del Paese; se un imprenditore estero vuole investire in Italia, si misura certamente con la corruzione, con la giustizia lenta ma anche con una stampa poco libera.
Che caratteristiche ha questo fenomeno dell’intimidazione ai giornalisti e qual è il “costo sociale” di questo reato?

Nel rapporto ci occupiamo di diversi aspetti ma su tutti emerge un dato. Le Italie che raccontiamo sono almeno due. C’è un’ Italia delle città (capoluoghi, città come Roma, Milano) e una delle periferie delle stesse città.  Le prime molto vive e c’è attenzione ai fatti, le seconde meno illuminate, più isolate. L’informazione giornalistica è come l’illuminazione stradale: ci sono zone dell’Italia che sono molto illuminate e altre in cui c’è un lampione ogni tanto.  Questo anche per sottolineare un altro elemento, confermato anche nel Rapporto Unesco. Di tutti i giornalisti uccisi nel mondo (125) la maggioranza, l’80percento non erano corrispondenti di guerra ma cronisti locali che nei vari paesi si occupavano di gestione del potere, malaffare, corruzione e criminalità organizzata. Lo stesso rapporto dice un’altra cosa, vera anche in Italia: il numero dei cronisti uccisi è la punta dell’iceberg di quelli minacciati. Questo è un problema che può sembrare solo del giornalismo e solo dei giornalisti, ma riguarda tutti e soprattutto i lettori. Siamo indietro in questa percezione della gravità del fenomeno. Servirebbe in Italia un movimento d’opinione simile a quello che decenni fa si mise in moto per le tematiche ambientali una coscienza collettiva di rispetto dell’ambiente e della salute.
Anche alcune azioni giudiziarie possono mettere un freno alla libertà di informazione?

Si, noi segnaliamo oltre alle minacce fisiche anche le querele temerarie, cioè quelle querele avviate solo per intimidire e prive di ogni fondamento, che spesso non proseguono  ma nel frattempo –  ed è questa l’intenzione con la quale vengono fatte –  ha avuto l’effetto di intimidire e mettere un freno all’attività del giornalista coinvolto. Questo vale anche per la richiesta di risarcimento danni. Di recente i mass media  si sono occupati del cosiddetto “caso Sallusti”. Su questo abbiamo una posizione chiara: siamo contro il carcere per punire la diffamazione a mezzo stampa allo stesso modo con cui siamo contro pena di morte  per punire reati.  L’Onu, il consiglio d’Europa, sostengono la stessa cosa da anni. Ed è bene dire che questo problema non nasce oggi, con la sentenza della Cassazione su Sallusti. Nel rapporto di quest’anno citiamo il caso di giornalisti di Pescara che sono stati condannati in primo grado ad un anno di reclusione, querelati da un sindaco, hanno subìto una condanna senza condizionale. Quando c’è stato questo caso in Italia, a differenza del “caso Sallusti”, non ne ha parlato nessuno mentre nel resto del mondo  si erano mossi in tanti, fra gli altri  l’associazione Art 19 aveva sollecitato ad intervenire le nostre istituzioni.
Come garantire difesa dell”onore”  e diritto all’informazione?
Noi diciamo che la diffamazione a mezzo stampa è una violazione di un diritto non è un delitto contro una persona, in tanti paesi nel mondo, infatti,  non è un reato penale è una violazione di cui si risponde in sede civile. In Italia, invece, c’è il doppio canale, si risponde in entrambe le sedi. Noi chiediamo con forza la depenalizzazione della diffamazione,  ma questo è un concetto di cui non si riesce a parlare, nemmeno in questi giorni di attenzione mediatica sul caso Sallusti. Inoltre, portare tutto nel codice civile risolverebbe il problema dell’ effetto intimidatorio delle querele, soprattutto se si riesce a prevedere per i giornalisti, una forma di garanzia assicurativa, simile a quella che hanno già i medici o gli automobilisti. Capita di sbagliare (parlo di errori e non di casi in cui c’è dolo) ma questo non può portare alla limitazione di un diritto costituzionale dei giornalisti e dei cittadini.
All’interno del rapporto c’è anche un riferimento al processo di Perugia per l’ omicidio di  Meredith Kercher, cosa è accaduto in quel caso?

Si tratta di una caso oscurato in Italia e invece di cui all’estero si è molto parlato. Ce ne siamo occupati nel rapporto e se n’è soprattutto occupato il Comitato protezione giornalisti di New York denunciando alcune “pressioni” ricevute da un blogger come un caso di violazione dei diritti umani.  E’ intervenuto, persino, il rappresentante  per i media dell’Osce chiedendo all’autorità italiane di permettere la libertà di critica, connessa a quella di stampa, e l’hanno fatto  prima che iniziasse il processo. Anche questa volta, abbiamo registrato un oscuramento della notizia e della denuncia che arrivava dall’estero.
E’ un problema anche interno alla categoria?

C’è stata e c’è una tendenza generale a minimizzare quello che accade. E  c’è un modo fazioso di affrontare questo problema. A volte succede che se viene minacciato un giornalista se ne
parli solo se è una firma “nota”. O peggio, accade che in una città si dia notizia sul proprio giornale solo della minaccia che riguarda il giornalista della stessa redazione e non di quella concorrente. Questo è un atteggiamento incivile, che non rispetta neppure i canoni giornalistici, perché sono notizie di rilevanza sociale e vanno date in ogni caso.  A questo problema bisognerebbe trovare soluzioni interne alla categoria ma al fenomeno delle minacce servirebbe soprattutto imporre dei deterrenti. In Italia se minacci un pubblico ufficiale è diverso dalla minaccia ad un cittadino. Continua ad essere facilissimo intimidire, invece, un giornalista e farlo senza rischi. Per questo abbiamo proposto di avviare una discussione per trovare strumenti per difendere i colleghi. Ci vorrebbe un reato specifico di “attacco alla Costituzione” perché al momento oltre all’Articolo 21  non ci sono altre tutele specifiche.  Molte  intimidazioni rientrano già all’interno di reati previsti dal codice, così si potrebbe pensare ad introdurre una aggravante specifica, se commessi con l’intenzione di ostacolare l’informazione.  Da un lato quindi servirebbe completare  la legislazione esistente  con queste norme, dall’altro anche rendere “dannoso” l’uso di queste minacce per chi le commette.  Abbiamo pensato, in questa direzione, alla creazione di un grande portale, fondato da enti pubblici,  in grado di intervenire subito dopo il caso di minaccia a giornalista, pubblicando tutti gli articoli di quel cronista, rendendo ancora più note e pubbliche le motivazioni che hanno indotto a tentare l’oscuramento della notizia attraverso la minaccia al giornalista. Infine, vanno applicate norme già in vigore e va resa nota l’esistenza di queste norme.  Penso a quella che riguarda i risarcimenti in sede civile. L’ articolo 96, introdotto tre anni fa, come recepimento di una direttiva Comunitaria che al termine di una causa, se il giudice ritiene strumentale quella querela può condannare il querelante a versare equo risarcimento al querelato. All’epoca l’equo risarcimento non era stato quantificato e questo ha rallentato applicazione.  Insomma, in tutti i casi, va sfatato il luogo comune del “Non si può reagire”. Reagire alle minacce si può e si deve.

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