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Una missione contro l’oblio

Di Elisa Marincola il . Internazionale

E’ responsabilità  di tutti, in particolare dei media, se  il conflitto tra israeliani e palestinesi è caduto da troppo tempo nell’oblio. Con questo pesante giudizio Giampaolo Cantini, console generale italiano a Gerusalemme ha accolto i partecipanti alla Missione di Pace 2.0, che durante tutta questa settimana incontrerà amministratori e associazioni, gente comune ed esperti, in Israele e Palestina. Organizzata dal  Coordinamento degli Enti locali per la pace e i diritti umani, insieme alla Tavola della Pace, questa Missione “2.0” segue la prima iniziativa che nel 2009 aveva portato la Marcia Perugia-Assisi a Gerusalemme.
E a tre anni di distanza la situazione non è certo migliorata. Già nel primo giorno d’incontri, a Betlemme, lo chiarisce il sindaco Victor Batarseh, eletto nel 2005 in una lista considerata vicina a Hamas, cristiano, e convinto sostenitore della convivenza e del dialogo tra comunità di differenti fedi. Aprendo le porte del suo municipio nonostante la domenica, Batarseh denuncia senza giri di parole gli effetti dell’occupazione israeliana e in particolare del muro di separazione, sull’economia della sua città: i terreni agricoli confiscati, il territorio del comune ridotto a un quinto di pochi anni fa, i disoccupati cresciuti vertiginosamente, impossibile andare a lavorare a Gerusalemme, e sono evidenti gli effetti anche su salute e istruzione. La denuncia di Batarseh è rilanciata da Ray Dolphin, rappresentante dell’Ufficio Onu per gli affari umanitari nei territori. Una relazione documentata che, accanto ai numeri,  mette in evidenza la situazione sulla cartina della regione, con la striscia di Gaza circondata dal muro e dalle fasce di sicurezza imposte da Israele, che rendono pericoloso coltivare la terra anche a un km di distanza dalla barriera, mentre dal mare i pescatori possono a mala pena raschiare il fondo a poca distanza dalla costa, tre miglia nautiche, neanche le sardine si spingono così vicino. Un quadro arricchito dalle cifre che fotografano la povertà estrema: disoccupazione al 30% che sale al 50% tra i giovani in una popolazione che per metà ha meno di 14 anni, oltre la metà delle famiglie sopravvive grazie agli aiuti alimentari che arrivano da fuori, impossibile accedere alle cure mediche specialistiche.  Mentre l’isolamento rafforza Hamas e i pochi imprenditori legati al gruppo islamico, che guadagna sul contrabbando di merci attraverso i tunnel con l’Egitto. Ma la situazione non è migliore in Cisgiordania.  A lavori conclusi, il muro, iniziato nel 2002 ed eretto quasi tutto sul territorio che spetterebbe ai palestinesi, si prolungherà per oltre 700 km, togliendo un altro 10% all’Autorità nazionale palestinese, che già ora controlla appena meno della metà del West Bank.
Il funzionario dell’Onu si spinge oltre: il risultato, al di là del disastro economico, è una pericolosa frammentazione tra gli stessi palestinesi, prima di tutto tra Gaza e Cisgiordania, ma dentro gli stessi territori, divisi in mille piccole enclave, dal muro, dagli insediamenti che crescono tutt’intorno, dalla presenza delle forze israeliane che occupano militarmente tutta la valle del Giordano. Una realtà su cui le Nazioni Unite si dichiarano in pratica impotenti: gli insediamenti sono illegali per tutto il resto del mondo, ma Israele non risponde, trincerandosi dietro alla parola sicurezza, spiega sconsolato Dolphin. Una questione internazionale che qui ha effetti inquietanti sottovalutati. Lo chiarisce ancora il sindaco di Betlemme che dedica le sue parole più amare alla riduzione degli spazi di convivenza, che danneggiano la sua stessa comunità. Rispetto al 1967, infatti, i cristiani nei Territori sono passati dal 70% a poco più dell’uno per cento, e nella stessa Betlemme ora sono circa un terzo, contro il 65% dei musulmani. Un tempo, prima del 2002, erano la stragrande maggioranza. Lui, cristiano, è sindaco perché un decreto del presidente dell’ANP Abu Mazen impone che siano cristiani i sindaci di dieci città importanti per garantire la convivenza e l’integrazione tra le due fedi. E cristiana sarà anche la donna che gli succederà tra pochi giorni. Una scelta nel segno del messaggio di Gesù spiega Batarseh. Una scelta di equilibrio nel dilagare dello scontro tra gruppi sociali, dietro il paravento delle opposte fedi.
Che la situazione stia sfuggendo di mano lo conferma una rapida passeggiata per la parte antica di Betlemme in compagnia di Samia Shahin, una giovane donna, insegnante di liceo, cristiana di famiglia d’origine aramaica. Per le stradine affollate di venditori e passanti locali, tanti uomini, frotte di bambini, poche le donne, quasi tutte con il velo in testa. Samia cresce da sola tre figli poco più che adolescenti, il padre lavora in Kuwait; dopo il giro, ci porta nella sua piccola casa in un edificio antico, con lei anche l’anziana suocera.
Vivo e lavoro qui a Betlemme, spostarsi e’ diventato impossibile, spiega, ma cerco la normalità per la mia famiglia. Normalità che è anche il figlio che, dopo gli studi, si prepara ad emigrare in Germania, mentre il più piccolo va al liceo ma fuori città, si vedono solo nei giorni di festa.  Con lei ci accoglie Dima, la figlia diciottenne, iscritta a ingegneria a Bir Zeit, un po’ insofferente dei limiti imposti alle ragazze: noi siamo più avanti dei nostri genitori, all’università condividiamo con i compagni musulmani gusti, idee, anche post su facebook, ma ammette: per trovare un impiego dovrò raggiungere mio padre in Kuwait, le donne qui non hanno opportunità.  Samia spiega: è un problema di cultura diffusa: io come cristiana non ho problemi, giro senza velo, ma evito di scoprirmi troppo, porto sempre maniche lunghe, cerco di non attirare l’attenzione: dopo l’intifada qui la comunità musulmana è più intransigente. E ne risentiamo tutti.Dopo un pranzo palestinese e un buon caffè alla turca,ci scambiamo indirizzi face book e mail, ci salutiamo: a presto, in Palestina o in Italia. Comunque, d’ora in avanti amici.
 

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