Vietato ai magistrati avvicinarsi alla verità
La cosa più sensata l’ha detta Paolo Mieli, l’altra sera da Lerner, quando ha messo in guardia dal criminalizzare Ingroia e i suoi colleghi perché a Palermo non si sa mai quello che può accadere. Ma sono tenui barlumi di ragionevolezza in un coro oscurantista che per l’ennesima volta mette sul banco degli accusati le persone sbagliate: quei magistrati che a costo di immani sacrifici cercano ancora di indagare sulle vere cause delle stragi di vent’anni fa. C’è poco da fare: ogni volta che la verità su materie delicate e controverse sembra a portata di mano, qualcuno getta barili d’olio sull’asfalto. Magari per dire poi che l’auto che ha sbandato correva a velocità eccessiva. Con questa metafora si può riassumere quanto sta accadendo da alcuni mesi con l’inchiesta sulla trattativa fra Stato e mafia fra il ’92 e il ’94.
Tutti i giudici assassinati in Sicilia, da Costa a Chinnici, da Ciaccio Montalto a Rosario Livatino, da Falcone a Borsellino, per citare solo i più noti, vissero gli ultimi anni della loro vita dovendosi difendere dall’accusa di protagonismo che proveniva sia dal mondo politico, sia dalla stessa magistratura. La ragione, allora come oggi, è semplice e nota. La magistratura non deve superare certi limiti. Non può pretendere di far rispettare la legge a chi, magari, si è fatto eleggere proprio per eludere la legge.
Prendiamo, per esempio, la frase di Vietti vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura: “Mai come in questo momento il silenzio è d’oro”. Che significa? Perché si dovrebbe stare zitti proprio in questo momento? Per non disturbare quale manovratore? O l’intemerata del presidente dell’Anm Sabelli, che pretendeva da Di Matteo e Ingroia che facessero qualche passo indietro sul palco della festa del Fatto a significare la loro presa di distanza da chi si era permesso di pronunciare il nome di Dio invano? Quelle parole vanno prese per quello che sono: mezzucci polemici. Restano i fatti. Negli ultimi trent’anni si sono verificate due grandi occasioni per sconfiggere per sempre la mafia. La prima con il maxi-processo, quando gli stessi Falcone, Borsellino e Caponnetto nutrivano seri motivi di speranza. C’erano finalmente i pentiti, era venuto giù il secolare totem dell’omertà, l’iniziativa giudiziaria cominciava a mietere condanne e non più assoluzioni per insufficienza di prove. Bastava un’altra spintarella e di mafia, in Italia, non avremmo più sentito parlare. Invece che successe allora? Mondo politico e settori della magistratura, con una manovra a tenaglia, prima delegittimarono il pool di Palermo mandandolo rapidamente in frantumi. Poi, con un’altra manovra a tenaglia, la mafia, in combutta con certa politica, certo Stato e certi servizi, con le stragi di Capaci e via D’Amelio, misero una definitiva pietra tombale sull’argomento. Capito come si fa? E veniamo qui alla seconda grande occasione perduta. Caselli venne a fare il procuratore a Palermo ed ebbe l’infelice idea di portare sotto processo i rappresentanti di quel mondo politico che sino a quel momento avevano razzolato con boss e picciotti. Infelice: nel senso che se avesse voluto fare una carriera migliore forse avrebbe dovuto capire che quelli erano momenti in cui “il silenzio è d’oro”…
Ovvio che dopo qualche mese Caselli e la sua procura divennero il pericolo numero uno per la Politica, lo Stato e il Potere. Andatevi a rileggere le dichiarazioni che fecero allora i Del Turco e i Ferrara, gli Sgarbi, gli Iannuzzi, i Liguori e i Macaluso e i Pellegrino… Che florilegio di garantismo. Che disquisizioni dotte sulla “responsabilità politica e storica” che sono una cosa, e sulla “responsabilità penale” che è un’altra cosa. Sperticate difese di Andreotti e Contrada poi condannati. Ma che importa ? Caselli doveva capire la lezione. Con la politica non si scherza. E Caselli dovette lasciare Palermo. Capito come si fa? E oggi? Diciamo che si stava profilando la terza grande occasione. Ammetterete infatti che non è cosa da poco iscrivere nel registro degli indagati una dozzina di rappresentanti delle istituzioni, uomini politici, mafiosi con coppola e lupara, per ciò che accadde dietro le quinte dello stragismo ’92-’93. Ma allora questi ci riprovano, avrà detto qualcuno.
E VAI CON IL GIOCO delle tre carte. I magistrati di Palermo attaccano il Quirinale. E il Quirinale che si offende. E la grande stampa che lo difende. “Come son cresciuto mamma mia devi vedere… figurati che faccio il corazziere”, cantava negli anni ’60 il genio di Renato Rascel. E quel motivetto ci ronzava in testa a leggere certe ricostruzioni che sembravano scritte su carta intestata dell’ Alto Colle… Gioco delle tre carte appunto. E sapete perché? Perché sino ad oggi non abbiamo letto nessun autorevole commentatore che ci abbia spiegato dove collocare, in tutta questa vicenda, la singolare figura di Mancino Nicola restituendogli tutto il peso che merita. Mancino, infatti, sarà anche Stato tutto quello che è Stato, ma oggi è un imputato. Si fosse limitato, nelle sue telefonate al Quirinale, allo sfogo di chi dice: mi hanno messo in mezzo in una storia di cui non so nulla, e in cui non c’entro nulla, il caso sarebbe stato archiviato come normale conversazione fra amici. Ma Mancino Nicola ha detto ben altro: sono un uomo solo, quest’uomo solo va difeso, perché se no chiama in causa altre persone… non voglio restare l’unico con il cerino in mano… Elegante vero? Ora il bello è che si pretende che dovessero essere i magistrati di Palermo a buttar giù la cornetta visto che le telefonate dell’imputato Mancino Nicola erano arrivate troppo in alto. Roba da matti, in qualunque paese civile. Ma non in Italia. Dove a nessuno è saltato in mente di scrivere da qualche parte che invece quelle telefonate andavano interrotte proprio da chi stava troppo in alto per lasciarle tranquillamente proseguire. Come finirà questa storia? Vorremmo sbagliarci. Ma secondo noi finisce come nei casi precedenti: sarà un’altra occasione perduta. Nel qual caso, a questo articoletto, ci limiteremo ad aggiungere solo una riga. Questa: “Capito come si fa?”.
*Pubblicato su “Il Fattoquotidiano.it” e “Antimafiaduemila”
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