Una legge per la democrazia
Trent’anni fa, il 13 settembre 1982, veniva approvata la legge n. 646, nota come “legge Rognoni – La Torre”, che introdusse per la prima volta nel codice penale la previsione del delitto di associazione a delinquere di tipo mafioso (articolo 416 bis) e la confisca dei beni alle organizzazioni criminali. Due disegni di legge, presentati rispettivamente dall’on. Pio La Torre e dal ministro dell’Interno Virginio Rognoni, confluirono in un testo normativo che ha segnato una svolta decisiva nella lotta alle mafie nel nostro paese. Una legge per la democrazia la potremmo definire, perché fu proprio Pio la Torre ad affermare come “dobbiamo considerare la lotta alla mafia un aspetto molto importante e decisivo, non a sé stante, ma nel quadro della battaglia più generale per la difesa dello stato democratico”.
Anche il figlio Franco La Torre, in occasione di un recente dibattito in memoria del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ha ricordato come quello di suo padre fu l’impegno di una vita per il riscatto della propria terra e delle persone dalla loro posizione di subalternità democratica.
Alcuni magistrati siciliani impegnati nel contrasto alle organizzazioni mafiose contribuirono alla stesura e alla formulazione tecnica della legge. Fu Rocco Chinnici uno dei primi a tradurre in azioni giudiziarie quei nuovi strumenti normativi, insieme con il pool investigativo dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo. Dopo la sua tragica morte, l’applicazione della legge proseguì grazie all’impegno di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uniti attorno alla nuova guida di Antonino Caponnetto.
In Sicilia, in quegli anni, ricordiamo anche il giudice Rosario Livatino che aveva iniziato le indagini patrimoniali alla mafia agrigentina. Oggi quei beni confiscati, dopo anni di abbandono, sono gestiti dai soci della cooperativa nata con bando pubblico e dedicata al giovane magistrato ucciso il 21 settembre 1990. La valorizzazione dei beni confiscati alle mafie, quindi, costituisce un’opportunità unica e irrinunciabile per creare lavoro pulito, esperienze concrete di buona economia che offrono segnali di fiducia in un periodo di crisi etica ed economica, su cui innescare un processo di sviluppo partecipato. Per generare reti di comunità e di infrastrutturazione sociale, per togliere il consenso alle mafie.
La prossima settimana, in un bene confiscato diventato base scout dell’Agesci nel comune di Naro, si svolgerà la prima summer school intitolata “Giovani, innovazione e imprenditorialità”, nella convinzione che la linfa vitale di qualunque programma di coesione territoriale, si genera con le migliori energie, passioni, intelligenze e volontà per il cambiamento.
E tutto questo è stato reso possibile grazie alla partecipazione democratica di tanti cittadini in tutta Italia, più di un milione furono infatti coloro che nel 1995 firmarono una petizione popolare – promossa dall’associazione Libera – per far approvare la legge 109/96 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie. Un principio che deve restare una priorità assoluta per affermare che la legalità conviene. I tanti beni confiscati e assegnati alle associazioni, alle cooperative e ai giovani, rappresentano un “bene comune”, un patrimonio da difendere e rafforzare per far rivivere la memoria di chi ha perso la vita in nome di quei valori sanciti dalla Costituzione e che alimentano la nostra democrazia.
Oggi la legge Rognoni La Torre e la legge n.109/96 sono confluite nel nuovo Codice delle leggi antimafia. Un’iniziativa legislativa positiva nelle premesse, ma che alla fine si è rivelata una raccolta normativa incompleta e con molte lacune ed ombre. In questi mesi tante sono state le voci provenienti dalla magistratura, dalle forze investigative, dagli enti locali, dal mondo accademico, economico e sociale, che si sono alzate per chiedere un intervento correttivo al testo approvato lo scorso anno, al fine di superare le criticità presenti e rendere pienamente operativa e funzionante l’Agenzia nazionale.
A partire da quel salto di qualità richiesto nella gestione dei beni aziendali, per riportare nella legalità intere filiere produttive (ad es. nel settore del calcestruzzo, dei trasporti, dell’agroalimentare) ancora condizionate e inquinate dalla presenza mafiosa. Oggi risultano solo 35 aziende ancora attive sul mercato e in cerca di una destinazione diretta alla prosecuzione dell’impresa, su un totale di circa 1600 confiscate dal 1982 ad oggi. Il resto per la gran parte fallite, chiuse e liquidate.
Così come ci sono più di 1500 beni immobili ancora bloccati dalle ipoteche bancarie. Già alcuni istituti di credito di rilevanza nazionale hanno dimostrato che si può trovare una soluzione adeguata per la loro cancellazione. Ma non bastano esempi isolati. Su questo tema è in gioco la credibilità del sistema creditizio che può e deve fare la sua parte nel contrasto alle organizzazioni mafiose.
Ne è convinta anche la Commissione europea che nella proposta di direttiva presentata nel marzo scorso, ha scritto “la confisca dei beni viene inclusa tra le iniziative strategiche nell’ambito di un’iniziativa politica più ampia destinata a tutelare l’economia lecita da infiltrazioni criminali, contribuendo alla crescita e all’occupazione in Europa”.
Principi che sono stati alla base della nascita di Flare – la prima rete europea per i diritti, la legalità e la giustizia, contro le mafie e la corruzione transnazionali – che ha portato tanti giovani a rafforzare il senso di appartenenza all’Unione europea. Riscoprendo le sue radici in quei valori di pace e democrazia post conflitto mondiale dei padri fondatori e, allo stesso tempo, rinnovando il proprio impegno e responsabilità di cittadini europei.
*Davide Pati – Ufficio di presidenza, Associazione Libera
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