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Enrico Bellavia: “Un giornalista si difende solo scrivendo ciò che sa”

Di Dario Barà per Ossigeno* il . Interviste e persone, Sicilia

“Questa vicenda conferma ciò che ho sempre sostenuto: che un giornalista rischia quando dà l’impressione di tenere nella penna qualcosa che sa”, dice ad Ossigeno Enrico Bellavia, il cronista della redazione palermitana di Repubblica che il 29 giugno scorso ha ricevuto una lettera intimidatoria scritta, con insolita proprietà linguistica  da un anonimo. Diceva testualmente: “La smetta di occuparsi di queste cose, lei con il suo amico Di Carlo, perché queste cose del passato fanno male”. Evidente il riferimento all’intervista al collaboratore di giustizia, ex boss di Altofonte, Francesco Di Carlo, pubblicata sulle pagine di Repubblica Palermo lunedì 25 giugno a firma di Bellavia. Il giornalista è in un certo senso un esperto della materia. Nel 2010 ha pubblicato Un uomo d’onore, un libro-intervista allo stesso Di Carlo nel quale il “pentito” parla abbondantemente della cosiddetta trattativa Stato-mafia e delle stragi del 1992, dei rapporti dei boss con i poteri occulti e con i colletti bianchi. “Quando la vicenda della trattativa è tornata di attualità ho avuto l’idea di intervistare Di Carlo per il giornale sul tema specifico facendogli commentare la piega che stavano prendendo le indagini. Le cose che aveva già detto nel libro erano note, ma ho pensato che isolate ed esposte in una intervista avrebbero avuto un’efficacia diversa. Dunque ho fatto l’intervista, e ho avuto subito la sensazione che fosse forte. Inevitabilmente  – spiega Enrico – nell’intervista c’è anche un tuo ruolo di intervistatore che consiste nel sollecitare risposte e precisazioni. Ad un collaboratore di giustizia che tira fuori delle cose limitandosi ad  accennarle, senza svilupparle, cose che magari ad un magistrato direbbe in modo più completo, il giornalista deve dire: ”lei non sta dicendo tutto quello che sa”. E forse questo ha preoccupato qualcuno. Se invece dell’intervista avessi fatto un articolo sulla trattativa, anche se avessi detto tutte quelle cose, probabilmente non sarebbe arrivata una lettera di minacce”.
Erano le tre del pomeriggio quando l’addetto alla segreteria lasciò la corrispondenza del giorno al giornalista seduto alla sua scrivania.  ”Prima ancora di aprire la lettera, vedendo come erano scritti il nome e l’indirizzo sulla busta, pensai: ‘queste sono sicuramente minacce’ e purtroppo erano proprio minacce”, racconta il cronista. “Lì per lì l’istinto fu quella di strappare  la lettera, di distruggerla. Mi trattenni e considerai che la partita era delicata e non coinvolgeva solo me. Capii che avevo la responsabilità di fare sapere a Di Carlo che era arrivata quella minaccia, e potevo farlo solo per via indiretta, perché i nostri rapporti sono indiretti. Era chiaramente una intimidazione più che una minaccia sostanziale, perché non dice “ti uccido” o “ti faccio quest’altra cosa”. Dice  “queste cose del passato fanno male”. Evidentemente vuole dire altro, perché “a me il passato non fa male”. Subito dopo il giornalista chiamò il 113 e raccontò l’accaduto. Dopo la telefonata due poliziotti andarono da lui, in redazione, a ritirare la lettera e chiesero al giornalista di andare in commissariato a sporgere denuncia al commissariato. “Non andai perché subito dopo mi chiamò la squadra mobile e mi chiese di fare la denuncia a loro e io feci così”, spiega Bellavia.
Tornato in redazione, Bellavia trovò i suoi colleghi che si ponevano il problema se scrivere o meno qualcosa sul giornale. “Quello di rendere note le intimidazioni è sempre un problema molto delicato. Per un giornalista è oltremodo fastidioso vedere che la notorietà del suo nome  è legata al fatto che ha subito un atto intimidatorio. So che è un’utopia, ma io vorrei essere conosciuto e giudicato per ciò che faccio, e non per la quantità di gente che faccio incazzare”. 
Ossigeno ha raccontato molte vicende come la tua. Purtroppo sono tantissime. Dare visibilità al caso e al giornalista, rilanciare ciò che ha scritto, ciò che a qualcuno ha dato fastidio aiuta a rompere l’isolamento. Significa non lasciarlo da solo. Queste cose sono ancora più importanti in Sicilia, dove si è registrato il più alto numero di giornalisti uccisi per mano mafiosa. Che ne pensi? Inoltre, secondo te, chi può avere interesse a minacciare un giornalista?
“Mi rendo conto benissimo dell’importanza della visibilità per i minacciati. Quando arrivarono le prime minacce a Lirio Abbate io ero segretario provinciale dell’Assostampa Sicilia e insieme agli altri colleghi mi impegnai per organizzare immediatamente una scorta civica. Ci riuscimmo, superando tutte le difficoltà che sorgono sempre in questi casi: la gelosia dei colleghi, le piccole invidie, le bassezze… In generale ritengo che sia giusto non tacere e rendere nota ogni cosa. La mia vicenda rafforza la mia convinzione che un giornalista rischia di più quando dà l’impressione di trattenersi dal dire qualcosa. La seconda riflessione che ho fatto è questa: la mafia ‘militare’, quella che spara, è raro che minacci. Tant’è che nelle biografie dei giornalisti uccisi dalla mafia non si trovano quasi mai minacce preventive. E poi, chi ha interesse a minacciare un giornalista? Di solito chi ha fatto affari con la mafia, e teme un disonore sociale prima ancora che giudiziario da certi accostamenti o rivelazioni. Nel mio caso non penso sia la mafia a minacciare. Penso che l’avvertimento arrivi dalla ‘zona grigia’ descritta da Nino Amadore in un libro interessante. La mafia invece uccide per seppellire un segreto. Cosa Nostra ha una raffinata esperienza criminale e capisce che un giornalista minacciato diventa immediatamente un giornalista megafono, quindi rinuncia alle minacce perché otterrebbe un effetto indesiderato. Ma se si convince che un giornalista ha un segreto e non vuole che quel segreto sia divulgato, uccide e seppellisce insieme il giornalista e il suo segreto. I miei otto colleghi uccisi in Sicilia erano tutti o quasi custodi di un segreto ed erano percepiti  come un pericolo incombente”.
Com’è  occuparsi di cronaca nera e giudiziaria, a Palermo. Quali sono i principali problemi e le maggiori difficoltà?
“Quando ho iniziato io, nel 1985, già molte cose erano accadute. Il punto di svolta c’è stato quando ha avuto inizio l’istruttoria del maxiprocesso. I giornalisti di nera e giudiziaria si sono trovati davanti a un bivio e hanno dovuto decidere se stare da una parte o dall’altra. Se sceglievi di sostenere quella grande sfida finivi inevitabilmente per essere considerato un militante di quel movimento che viene chiamato ‘l’antimafia’. Io per convinzione, per cultura personale, per formazione familiare non potevo che stare da quella parte. Così mi sono ritrovato all’interno di un percorso di formazione collettiva. E’ stato così per molti di noi. La percezione di essere schierato in una zona ben precisa del campo l’ho sempre avuta. Questa consapevolezza per certi versi è un vantaggio. Ma devi anche difendere l’imparzialità del tuo mestiere, e ciò ti crea problemi quando devi criticare qualcuno del tuo stesso fronte. Palermo è una città difficile, complicata. Devi fare sempre molta molta attenzione a chi ti accompagni. Ma sul piano professionale, per un giornalista, è forse la piazza più esaltante del mondo”.
Chi rischia di più a fare la cronaca?
“A rischiare di più non sono certo i grandi inviati, gli specialisti del mordi e fuggi, le firme che scrivono il bel pezzo. Rischia chi denuncia le malefatte vivendo sul territorio e restando a vivere sul territorio. E’ rischioso scrivere notizie negative, sfavorevoli di gente che sa tutto di te, che sa dove vanno a scuola i tuoi fi
gli, di che colore è la tua macchina, che abitudini hai. Io ho il vantaggio di non vivere in un paesino ma in una città di un milione di abitanti, e di godere della rete di protezione della mia testata. Questo aiuta molto. Nella vita professionale ti capitano tantissimi episodi spiacevoli, anche minacce larvate. Se fai parte di una redazione robusta hai un supporto che ti aiuta a fronteggiare questi episodi. I collaboratori esterni, anche se lavorano per grandi testate, rischiano molto di più. Molte difficoltà nascono quando ti occupi di chi gestisce il potere. Oggi il vero problema per la libertà d’informazione è rappresentato dal facile ricorso alle citazioni in giudizio per danni. Queste istanze hanno un potere intimidatorio molto forte anche sulle aziende con le spalle forti. Una richiesta di 6-7 milioni di euro di risarcimento avanzata in sede civile ti nega preventivamente la possibilità della difesa in contraddittoria tipica del giudizio penale.  Diventa difficile difendersi. Se te ne arriva una, il giornale ti dice ‘va bene, difendiamoci’. Ma se te ne arriva una seconda, una terza, il tuo giornale ti dice: ‘ma non c’è modo di evitarle?’. Io queste cose le ho patite quando mi sono occupato di cronaca giudiziaria. Più volte hanno minacciato di citarmi per danni. Qualche citazione è arrivata ma poi per fortuna è stata ritirata. Le querele per diffamazione in sede penale, lo dico probabilmente andando contro corrente, invece le capisco di più. Noi giornalisti maneggiamo carne, sangue, lacrime, coscienze, dignità delle persone. A me sta bene che uno dica che quel che ho scritto non gli sembra corretto e ci sia un giudice a decidere se è vero o no. Mi sta benissimo. Invece non mi sta bene che qualcuno presuma subito di quantificare il danno d’immagine che io gli avrei arrecato, e che il giudice sia chiamato a pronunciarsi sulla congruità del danno dandolo per scontato, come avviene spesso. Ricordo una proposta di legge del senatore Milio: prevedeva l’obbligo della rettifica, una procedura e alcune garanzie, per fare la riparazione senza arrivare al processo. Che fine ha fatto?”.
Ma la mafia contro cui combattiamo, il cronista la vede, la incontra?
“Scrivi di mafia, ma la mafia mica la vedi, ne hai una percezione mediata dagli avvenimenti e a volte dall’avvocato che difende gli imputati di mafia, che esercitano un ruolo anche di cuscinetto rispetto alle pressioni dei loro clienti. Chi  frequenta quotidianamente per lavoro il palazzo di giustizia  lo sa. Gli avvocati sono gentili, non incontri mai avvocati arroganti. Gli avvocati cercano di attutire, vengono a parlarti. In questi comportamenti a volte possono esserci anche dinamiche intimidatorie. Chi è dentro a queste cose sa distinguere bene tra un tentativo di mediazione e un tentativo di intimidire”.
È più difficile raccontare la mafia rispetto a quegli anni di cui parlavamo prima, gli anni del maxiprocesso, gli anni delle stragi di cui ricorrono i vent’anni, oggi che la mafia non è più visibile in quel modo?
“È difficile. Oggi è molto più sfuggente. Bisogna andare al di là di alcuni stereotipi, al di là di alcune visioni consolidate che riguardano quella che definiamo la mafia ‘militare’. C’è il meccanismo di controllo del territoriale, l’importanza del racket… Il problema vero è proprio quello di raccontare la mafia che non si vede, la mafia degli affari. Devi immaginare, cogliere indizi. Se coltivi il sospetto e cerchi di suffragarlo di riscontri quotidiani, finisci per sospettare di ogni cosa. Quella degli affari è la mafia più difficile da raccontare”.
In questo momento a Palermo e nel circondario quale è la situazione del sistema mafioso?
“La sensazione è che ci sia ancora un forte controllo del territorio. Ma le coscienze sono più libere, le persone parlano più liberamente di mafia. Spuntano denunce spontanee anche dove non te l’aspetteresti. Che il clima sia diverso è evidente, ma non c’è dubbio alcuno che si debba fare ancora  molta strada. Io credo che a Palermo molti abbiano smesso di pensare che il sistema mafioso sia conveniente. Credo che molti ci convivano per necessità, o per convenienza, o perché la mafia garantisce una sorta di welfare parallelo. Però il popolo ha smesso di considerare il sistema mafioso invincibile e impunito per sempre. In questo senso il Maxiprocesso rimane un monumento all’azione di contrasto alla criminalità. Ha dimostrato che l’impunità per i mafiosi è finita, che non si possono aggiustare tutti i processi. Per i mafiosi questo è abbastanza chiaro. Chi non lo ha ancora ben chiaro è l’universo dei colletti bianchi, la zona grigia. Il popolo percepisce che lo Stato riesce a incarognirsi nei confronti del mafioso militare ma poi non riesce a punire e a tenere in carcere un colletto bianco, un politico, per lungo tempo”.

Che ruolo ha avuto il giornalista in questo cambiamento e quale ruolo svolge oggi?
“Oggi il ruolo del giornalista è strano. Prima il giornalista andava in giro (questura, carabinieri, polizia, tribunale) tornava al giornale, scriveva i suoi pezzi e poi aveva la sua vita privata. Oggi il giornalista è chiamato anche a svolgere un ruolo sociale che  non ha niente a che vedere con il giornalismo in senso stretto. Nella mia vita, ad esempio, una quota non indifferente di tempo è dedicata a quello che io chiamo ‘apostolato laico’. E’ fatto di interventi nelle scuole, dibatti, presentazione di libri, interviste pubbliche, che non sono lavoro in senso stretto, ma sono attività che io penso di dovere fare per assolvere pienamente il mio ruolo sociale di giornalista. So che questo non è propriamente il mio ruolo. Da giornalista dovrei essere asettico, dovrei essere  fuori dai giochi, mi dovrei limitare a scrivere. Ma mi rendo conto che in questa fase a noi giornalisti, come pure ai magistrati, spetta colmare un vuoto lasciato dalla politica. Oggi nella società non c’è un luogo per discutere di lotta alla mafia se non ci sono magistrati e giornalisti che ne parlano, perché la politica non ne parla. In Sicilia è finita l’epoca in cui c’erano i cadaveri per strada a dimostrare la violenza della mafia e a destare sconcerto, rabbia e indignazione. E’ difficile tenere desta l’attenzione su temi della mafia quando non c’è l’emergenza palpabile. E’ difficile anche per un giornalista”.

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