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Caduto il “fortino”: una vittoria di Lea e Denise

Di Lorenzo Frigerio il . Lombardia

La notizia dello sgombero avvenuto ieri, con grande spiegamento di carabinieri e poliziotti, dell’enclave abusiva di via Montello 6, in pieno centro a Milano, è sicuramente una bella notizia. Intendiamoci, il ripristino delle condizioni di legalità in un fortilizio, rimasto in mano ad un gruppo di criminali per lunghi interminabili decenni, non può che suscitare plauso incondizionato. In molti poi, dai giornali alle tv, passando per i social network, hanno colto la singolare coincidenza dell’intervento delle forze dell’ordine con l’arrivo dell’estate, peraltro già torrida da alcuni giorni. E in tanti hanno colto in questa sovrapposizione il segno di una nuova stagione che si apre alle ragioni di una legalità che, una volta tanto, non viene calpestata e irrisa. Eppure, in queste ultime ore in cui tutte le istituzioni cittadine sembrano scosse dal fremito legalitario, facendo a gara per rilasciare dichiarazioni compiaciute del proprio ruolo decisivo nella vicenda e inneggiano alla “forza della legge”, non possiamo non ricordare che per quarant’anni in via Montello 6 ha avuto la meglio, viceversa, la “legge della forza”. 

Come definire altrimenti la presa, avvenuta fin dagli anni Settanta in sordina e poi conservata manu militari a metà degli anni Novanta, di un quadrilatero immobiliare di proprietà pubblica nel centro della città, senza suscitare alcuna reazione? E soprattutto, come giustificare il permanere per un così lungo periodo di condizioni di assoluta illegalità, nel silenzio di chi avrebbe dovuto, per competenza, intervenire e ristabilire la normalità? A domande così non si può rispondere, richiamando il contenuto delle note di servizio e dei verbali ufficiali intercorsi in questi lunghi anni tra la proprietà – l’Ospedale Maggiore di Milano – e la questura, la prefettura, il comune e chissà chi altri. O meglio, queste carte, che immaginiamo ingrossino corpose pratiche e riempiano interi faldoni, posizionati su traballanti e polverosi scaffali, restituiscono plasticamente il senso di diffusa impotenza che ha paralizzato per quarant’anni ogni possibilità di riscatto.   Il quadro di via Montello 6 è ben descritto nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere disposta per i fratelli Cosco, signori incontrastati del quadrilatero che insiste anche su via Canonica, e i loro sodali. All’epoca in cui vengono raggiunti dalla nuova misura personale, si trovano sotto processo per l’omicidio di Lea Garofalo. Sono mesi in cui si disquisisce sulla loro fedina penale, presentati dai rispettivi avvocati come irreprensibili cittadini, lontani dalla violenza che viene contestata per la brutale soppressione della collaboratrice di giustizia. Dei Cosco vengono negati i legami con la ‘ndrangheta: nelle arringhe difensive finali si ricorda che i collaboratori più accreditati dalle procure antimafie, ma soprattutto le inchieste più importanti sull’asse Milano – Reggio Calabria non ne parlano affatto. 
Eppure, nell’ordinanza del Gip Gennari si leggono parole inequivocabili: «Il clan Cosco –  composto dai fratelli, dalle rispettive mogli e dai diversi fidati uomini – è riuscito a creare un vero nucleo criminale, che da anni agisce indisturbato. Dopo i contrasti con altre famiglie di ‘ndrangheta via via spazzate da omicidi e indagini – vicende ben descritte in relazione alla vicenda di Lea Garofalo – i Cosco rimangono sostanzialmente padroni del fortino di via Montello, abbandonato ai suoi destini dall’Ospedale Maggiore. Qui la famiglia organizza una vera e propria rete di attività delinquenziali, che vanno dallo spaccio sistematico, alla gestione immobiliare in grande stile, al reinvestimento dei capitali  illeciti in prestiti a usura». Via Montello come il terminale di una rete delinquenziale di vaste proporzioni che riesce addirittura ad ampliarsi fino ad arrivare al settore edile, in proprio o con altri soggetti compiacenti, con la possibilità di ingresso negli scavi delle nuove linee metropolitane. Vecchi affari – spaccio di droga, sempre nel fortino ieri espugnato ed estorsione – e nuovi business – movimento terra e appalti – che si combinano tra loro perfettamente: «una vastissima ramificazione di interessi – sottolinea il Gip – che si alimentano e finanziano reciprocamente». Se non è un clan mafioso quello dei Cosco, poco ci manca, verrebbe da dire, ma dobbiamo giustamente attenerci a quanto emerso nel processo per l’omicidio Garofalo, dove non è stata contestata loro l’aggravante mafiosa. Tuttavia, perché di fronte ad una così manifesta presenza criminale, pur senza le stigmate mafiose, per molti decenni le forze dell’ordine non hanno potuto far rispettare la legge in quella zona? Perché ci sono riusciti solo ieri sfoggiando una prova di muscoli, degna forse di altre situazioni, visto che in strada sono finite alcune famiglie, a loro volta vittime dei Cosco, oggi in galera? E perché non si è riuscito quanto meno a fare in modo che cessasse prima l’occupazione abusiva di via Montello? 
L’abbandono di quello stabile per decenni, impossibile da valorizzare economicamente, per l’impossibilità di fare una minima manutenzione, interroga sulle responsabilità omesse finora. Non si venga a dire che questi quarant’anni sono stati impiegati per seguire le ordinarie procedure di sfratto. Perché solo nel 2011 la proprietà ha denunciato penalmente la situazione? Perché solo nel 2011 è stata avviato un censimento delle irregolarità, insieme all’Aler? Non sarà forse perché nel frattempo era partito il processo per l’omicidio di Lea Garofalo e la pressione morale di associazioni come Libera e della pubblica opinione aveva acceso nuovamente i riflettori su Via Montello? In quel luogo venne decisa l’eliminazione della coraggiosa collaboratrice e per ricordare il suo sacrificio, lo scorso 21 marzo, il tradizionale appuntamento con la lettura dei nomi delle vittime di mafia che ogni anno Libera organizza nella “Giornata della memoria e dell’impegno” si tenne a pochi passi da lì, sotto gli occhi interessati di alcuni familiari dei Cosco. 
Il fortino della mala cade non per le ragioni di sicurezza e ordine pubblico che ne avrebbero imposto lo sgombero doverosamente da almeno tre decenni, ma solo per quello che – addolora doverlo pensare visto che è stata uccisa una donna, una madre – è stato un incidente di percorso, una prova di forza dei Cosco che si è trasformata per loro in un boomerang. Del resto lo stesso Gip Gennari lo aveva scritto in tempi non sospetti: «La eliminazione di Lea Garofalo appare – incredibilmente – quasi un fatto di secondaria importanza; una resa dei conti personale della potente famiglia Cosco». Ne siamo certi: è stata proprio la vicenda di Lea a dare una scossa alle istituzioni cittadine. Senza il processo, via Montello 6 sarebbe ancora occupata abusivamente e sarebbe ancora luogo di abuso e spaccio all’aria aperta. Senza la triste fine di Lea e la coraggiosa testimonianza di Denise il fortino sarebbe ancora in piedi. Lo ricordino quanti in queste ore si attribuiscono i meriti dello sgombero. Ieri, in via Montello, c’erano Lea e Denise.   

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