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Giornalismi e mafie: la grande voglia di raccontare, nonostante tutto

Di Rino Giacalone il . L'analisi

Si è concluso a Ravenna il “Grido Della Farfalla – 4° Meeting Dell’Informazione Libera” che ha portato giornalisti, associazioni e giovani a ragionare sul giornalismo d’inchiesta in Italia dal 24 al 27 maggio. All’interno del Meeting tavole rotonde, proiezioni di documentari, appuntamenti a teatro e dibattiti sull’informazione in Italia. Tante le associazioni coinvolte sul territorio. Quest’anno anche un premio dedicato al giornalismo d’inchiesta. Per la sezione “Honoris Causa” il riconoscimento è andato al cronista trapanese, Rino Giacalone. A seguire il suo intervento su informazione e mafie nel Paese e in Sicilia. 
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In questo nostro Paese ci hanno abituato a parlare di mafie in presenza di anniversari. Ma non tutti gli anniversari sono importanti. Oggi per esempio, 27 maggio, siamo a 19 anni dalle bombe piazzate a Firenze dal latitante mafioso Matteo Messina Denaro quello che alcuni dicono che non è niente dentro la mafia, mentre quel tritolo racconta altro. e di queste stragi pero’ non si parla perché si dovrebbe parlare di Messina Denaro e forse non e’ cosa buona e giusta parlare del boss. Presto avremmo un anniversario da ricordare ma scommetto che non ci saranno celebrazioni. Tra qualche settimana saranno 30 anni dall’introduzione del reato di associazione mafiosa. Da trent’anni nel nostro Paese il reato di associazione mafiosa viene perseguito ma la mafia, le maffie esistono da molto tempo prima. 
Nella provincia dove comanda oggi Matteo Messina Denaro, una provincia che non viene raccontata, Trapani, la presenza della mafia sommersa come lo e’ oggi, è attestata in un documento del procuratore del Re, prefetto Ulloa che il 3 agosto 1838 così scrive: “La venalità e la sommissione ai potenti ha lordato le toghe di uomini posti nei più alti uffici della magistratura. Non vi ha impiegato che non sia prostrato al cenno ed al capriccio di un prepotente e che non abbia pensato al tempo stesso a trae profitto dal suo Uffizio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle Fratellanze, specie di sette. Il popolo è venuto a tacita convenzione con i rei”. Sembra di leggere della Trapani di oggi dove la mafia è sommersa, bene infiltrata, qui comanda la mafia borghese, senza bisogno di coppole e lupare ha fatto diventare legale il proprio sistema illegale. Qui a Trapani regna quel crocevia misterioso dove mafia affari politica massoneria servizi segreti ha regolato la via non di una città, di una provincia, di una regione, ma la vita dello Stato. Un crocevia di intrecci che oggi protegge la latitanza di Matteo Messina Denaro per i segreti che questi si porta appresso a cominciare dai documenti portati via dalla cassaforte del covo di via Bernini dove Riina era nascosto. Il prossimo giugno, tra qualche giorno, la latitanza di Matteo Messina Denaro taglierà il traguardo dei diciannove anni. A Trapani però da decenni ci sentiamo dire che, nonostante questi scenari, non succede niente Ci sentiamo dire ciò da quando giudice a Trapani era anche Giovanni Falcone, qui arrivato a 26 anni, da Lentini: erano tempi in cui il solo pensare alla mafia poteva rappresentare un ardire. In un certo senso e’ quello che accade ancora oggi: la gente adesso rispetto ad allora non nega il fenomeno mafioso, ma la maggiorparte si mostra incredula quando sente dire di politici e funzionari pubblici arrestati, anche condannati, di tangenti pagate ai boss, della mafia che si fa imprenditoria. Qui c’è chi dice convinto che la mafia esiste perché deve esistere per forza l’antimafia. 
Dal 1982 ad oggi la presenza mafiosa trapanese è segnata da sangue, morti ammazzati, faide, ma anche inciuci, crocevia di misteri, politica, servizi segreti, italiani e stranieri, Gladio, massoneria. E’ la storia della mafia che qui in mezzo a questi 20 anni dalle stragi e’ tornata ad essere sommersa perché qui era nata sommersa. Infiltrata nella borghesia, nei salotti della città, nei circoli nobiliari. Qui a Trapani pochi sono stati gli uomini d’onore con coppola e lupara, molti di più quelli che erano stati “punciuti” o erano vicini alla mafia, personaggi con tanto di blasone, nobili, banchieri, professionisti….in una parola borghesi. E si sa ad un borghese viene più facile fare tante cose… per esempio condizionare l’informazione. A Trapani c’è una informazione che tendenzialmente nasconde le notizie, o se deve proprio raccontare usa più che mai il condizionale e attende il primo momento utile per smentire il lavoro dei magistrati. La città di Trapani è la città dove l’informazione si e’ adeguata e una prescrizione vale più di una assoluzione, e una carcerazione è titolo per fare carriera e ottenere rispetto. Trapani è la città che spesso sta lontano dalle vittime, non è moda, meglio stringere le mani ai colpevoli e agli indiziati, Trapani è la città dove se un imprenditore viene arrestato e si pente, la banca telefona subito per sollecitare il rientro dal fido, in caso contrario questa telefonata non arriverà mai. A Trapani una cinquantina di imprese sono uscite da Confindustria prima ancora che i vertici chiedessero i certificati sui carichi pendenti. Fuori da Confindustria, e rimaste perfettamente dentro al sistema (illegale) economico. Trapani è la città che concede la cittadinanza onoraria a due grandi giornalisti perché loro hanno osannato la bellezza del mare e gli arancini, Trapani nega la cittadinanza onoraria ad un prefetto che decise di difendere a viso aperto i beni confiscati dall’attacco della mafia e dei colletti bianchi a servizio della mafia.
Trapani nel 2012 e’ la città povera che conta una miriade di sportelli bancari, dove hanno riaperto le finanziarie e dove innumerevoli sono i negozi che comprano oro. Dove non mancano le sale bingo e del poker on linre. Slot machine in ogni bar. Paolo Borsellino e Giovanni Falcone avrebbero avuto l’idea di creare un pool antimafia a Trapani. Se Palermo è la capitale della mafia, Trapani resta la capitale del settore finanziario, lo zoccolo duro di Cosa nostra anche di quella sommersa.
Trapani vent’anni dopo Capaci. Si dice che Falcone sia andato via da Palermo, con destinazione ministero della Giustizia, con la curiosità di non aver potuto indagare sul centro Scorpione della struttura Gladio. Oggi di Gladio sappiamo ancora niente. Il suo comandante Vincenzo Li Causi pseudonimo signor Vicari, e’ morto ucciso da fuoco amico (sic!) in Somalia. La base “Scorpione” era a Trapani. Mauro Rostagno pare se ne fosse interessato. Rostagno è uno degli otto giornalisti ammazzati in Sicilia perché i mafiosi di lui dicevano che era “na camurria”, perché parlava sempre di “mafia, mafia, mafia”. Nel 1988 quando fu ucciso, Rostagno mandava le telecamere al Comune quando scattavano i blitz contro i consiglieri corrotti, dava il microfono a Borsellino, alla mamma dell’agente Antiochia, intervistava il grande Sciascia, lo scrittore Cimino e Claudio Fava, sbeffeggiava Mariano Agate, boss di Mazara, pensate se poi era pure riuscito a intercettare i traffici di armi segreti, che venivano fatti sulle rotte della droga, all’ombra di Gladio, la sua vita era presto finita segnata. Gladio, i traffici di droga e di armi, il delitto , restano oggi ancora fatti accennati, senza colpevoli. E la mafia trapanese in questo contesto ma non solo in questo, sembra essere stato un service di morte a disposizione di altri.
Vent’anni dopo le stragi e 19 dopo quelle del 1993 dobbiamo fare i conti con una informazione malata, che celebra l’antimafia da souvenir, che usa un campo di calcio per una trasmissione sul fenomeno mafioso, una televisione che nel resto dell’anno dimentica di fare il plastico delle scene degli attentati di mafia, che dimentica per
esempio che il tritolo usato nel 1985 a Pizzolungo per uccidere il giudice Palermo, che si salverà grazie al sacrificio di una donna e dei suoi due genmellini, è lo stesso usato nell’attentato al treno 904, è lo stesso di quello che verrà usato all’Addaura contro Giovanni Falcone nel 1989, Falcone parlò di menti raffinate, come non parlare delle stesse menti raffinate per Carlo Palermo o ancora per l’oggi questore Rino Germanà che dopo avere indagato da capo della Mobile di Trapani sulle grandi banche della mafia si ritrovò retrocesso di fatto a commissario e riportato a Mazara dove i killer lo aspettavano per ucciderlo, fortunatamente non ci riuscirono.
Non serve oggi solo il giornalismo d’inchiesta, serve anche un giornalismo che abbia la voglia e il desiderio di raccontare gli accadimenti e che gli sei consentito potere raccontare, che induca a riflettere, tante verità sono scritte in atti giudiziari che non vengono raccontati o non vengono bene raccontati. Nelle periferie di questo paese la legge bavaglio esiste da decenni senza bisogno di essere approvata. Nelle periferie ci sono i cronisti che raccontano le mafie ma ci sono i cronisti che sono protagonisti di una mafia che gestisce l’informazione, e per farlo non hanno bisogno di essere punciuti. Basta non raccontare bene e il gioco è fatto. 
Il prefetto Ulloa lo scrisse nel 1838, l’emergenza era costituita dalla mafia e dalla corruzione. Oggi l’emergenza non è cambiata. Mafia e corruzione sono ovunque. E’ vero non si spara più ma non si racconta a dovere, oggi ai giornalisti le intimidazioni arrivano in nome della legge, con le citazioni in sede civile promosse da uomini delle istituzioni quelli che ieri negavano l’esistenza della mafia e oggi ci dicono che la mafia è sconfitta e che preso l’ultimo dei latitanti, Matteo Messina Denaro, Cosa Nostra avrà smesso di esistere. Intanto puo’ capitare che chi dice che Messina Denaro deve esser presto e consegnato al carcere a vita si vede bruciare la casa o si è visto portare da mani anonime buste con proiettili direttamente sul tavolo da lavoro. Qui se si scrive che Messina Denaro è circondato da una “cricca” di insospettabili e se alcuni di questi vengono arrestati, immediatamente scorre un fiume di incredulita’. Se si scrive che Matteo Messina Denaro poteva essere preso ma non e’ stato preso invece di rimediare c’e’ chi corre per scoprire il suggeritore del giornalista e cio’ che si coglie nell’aria e’ che forse tra 20 anni potremmo avere un processo per la mancata cattura di Messina Denaro che da latitante assieme zompaste riuscì un giorno a partecipare ad una affollata processione religiosa affacciato dal balcone di una sacrestia. C’è chi prova a raccontare queste cose scrivendole sui giornali, c’è chi non ci prova affatto, c’è chi deve scrivere le cose a metà, e c’è chi è pronto a smentire quanto scritto dal collega o c’è chi il bavaglio se lo mette senza nemmeno bisogno che qualcuno glielo dica di fare, capisce l’andazzo e si adegua da solo. Ovviamente i più inaffidabili tra i giornalisti sono coloro i quali che carte giudiziarie alla mano raccontano, senza bavaglio, il lavoro di magistrati ed investigatori. Uno di quelli che parlava così ai telespettatori dei suoi tg era Mauro Rostagno , chi ha indagato sulla sua morte ha detto che era circondato dai lupi e i lupi lo hanno azzannato, oggi i lupi non azzannano come fecero con Rostagno ma ci sono lo stesso, restano in giro, difendendo chi nella politica non rispetta la distanza di sicurezza dalla mafia, tutelando chi fa il sindaco antimafia recitando una parte.
Non amo parlare in prima persona, ma oggi lo devo fare. Per ristabilire  una verità che mi riguarda e che ha a che fare col raccontare. L’estate scorsa ho lasciato per dimissioni volontarie il giornale (La Sicilia) dove ho lavorato per oltre 20 anni, di cui 11 da regolarmente assunto. E’ vero la mia attività è stata pressocchè libera, tra mugugni e lamenti ho scritto su Trapani e le mafie. Poi la decisione di fermarmi quando i giudizi sul mio conto sono cambiati: nessuno mi ha detto che non dovevo scrivere piu’ di mafia ma che il problema era la mia pervicace ricerca della verità, il giornalismo come impegno civico non trovava più accoglienza e ne ho preso atto e ne ho tratto le conseguenze presentando le dimissioni, per proteggere il giornalismo con la schiena dritta. Non ci sono vittime in questa storia, nel giornalismo le uniche vittime restano coloro i quali hanno perduto la vita per avere tenuto salda in mano la penna o chi allo stesso modo si visto messa la bomba sotto l’auto o chi quella bomba l’ha avuta promessa come è successo a tanti colleghi come Gianfranco D’Anna, Lirio Abbate e oggi Giovanni Tizian. La mia vicenda testimonia solo che raccontare non e’ sempre cosa facile e accettata, altro che giornalismo d’inchiesta, il problema resta quello del racconto, raccontare cio’ che ascolti in un’aula di Tribunale o che vedi di persona, l’inchiesta che si deve fare e’ semmai quella che serve a scoprire perche’ determinate notizie altri non le scrivono.
Oggi abbiamo un lavoro da continuare. Vent’anni dalla stragi in questi giorni ci dicono che quelle morti sono legati ad una trattativa, ci fanno vedere i volti di assassini sanguinari, quello che vorrei vedere io un giorno sono i volti di chi ha aiutato e aiuta questi sanguinari assassini e so di certo che questi sono i volti di chi ci ha governato o ci governa, persone distribuite nei tanti livelli istituzionali, Pizzolungo, Capaci, via D’Amelio non sono stragi per favorire la trattativa sono stragi concordate in quella trattativa che nel nostro Paese va avanti da anni, da troppi anni e produce effetti dalle periferie al centro del Paese. Questa è la pagina del giornalismo d’inchiesta che vorrei un giorno fosse scritta. Provarci e’ un obbligo. Caro Roberto si fa quel che si può, accada ciò che può. E’ al mio direttore di Libera Informazione Roberto Morrione che dedico il premio che ho appena ricevuto a Ravenna dal gruppo dello Zuccherificio e dalle mani di Mara Filippi Morrione, e lo dedico anche a chi come il dott. Giuseppe Linares a Trapani, ex capo della Squadra Mobile, oggi dirigente della divisione anticrimine, che rappresenta i trapanesi onesti e nonostante tutto ci dà speranza di potere presto vivere in una società migliore. 

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