Se Falcone fosse vivo
Se Falcone fosse vivo cosa penserebbe dell’attuale stato della lotta alla mafia? Penserebbe anche lui che andrebbe dato un premio al governo Berlusconi per la sua gestione della lotta alla criminalità organizzata? Cosa penserebbe di Marcello Dell’ Utri che considera Vittorio Mangano, morto da mafioso e da assassino per sentenza di Cassazione, un eroe dell’ Italia moderna?
Cosa penserebbe di una mezza dozzina di senatori che stanno a Palazzo Madama nonostante pesanti imputazioni per mafia? Cosa penserebbe di buona parte della politica italiana che, in difesa di corrotti e corruttori, non ha alcuna intenzione di approvare leggi contro la corruzione? Cosa penserebbe di quei partiti che hanno dilapidato enormi rimborsi elettorali per finalità diverse da quelle previste dalla legge? Cosa penserebbe di una magistratura che il potere politico vede come fumo negli occhi e come ostacolo ai suoi disegni da consorteria malavitosa piuttosto che una risorsa alla quale attingere per cambiare e migliorare il Paese?
Queste domande dovrebbero essere sufficienti a rendere l’idea. Giovanni Falcone non diede la sua vita per essere imbalsamato da morto. Lo infastidirebbero gli elogi retorici e ipocriti. Sapeva che a lui, e ai suoi colleghi del pool antimafia di Palermo, era toccato il compito di aggredire innanzitutto il profilo militare di Cosa Nostra. Ma sapeva altrettanto bene che sarebbe dovuto venire il tempo di recidere le complicità istituzionali economiche e politiche di Cosa Nostra. Che questo, a vent’anni dal suo sacrificio, resti in Italia un limite invalicabile, è la spiegazione del perché Cosa Nostra sia sopravvissuta a Falcone. Il che, in uno Stato moderno e civile, non sarebbe dovuto accadere.
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