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Campania, da capo clan a esempi di resistenza

Di Rosita Rijtano il . Campania

Quando i carabinieri arrivarono a Poggio Vallesana per arrestare Lorenzo Nuvoletta, la prima cosa che sentirono fu la voce di una donna: “Fujte, ce stanno gli sbirri”. Nel dicembre 2004 a Secondigliano le hanno trovate in strada, armate. In mano piatti e stoviglie, pronte a difendere i loro uomini. “Jatevenne”, urlano nel 2010 a Caivano contro i poliziotti colpevoli d’impedire lo spaccio della droga. “Noi dobbiamo vivere, abbiamo i figli e siamo senza stipendio”. Confidenti, assassine, imprenditrici: sono le cosiddette lady camorra. A volte appassionate vendicatrici. Come la loro progenitrice, Pupetta Maresca che negli anni cinquanta uccise l’assassino del marito, Pasquale Simonetti. A volte manager, titolari di aziende e ingenti patrimoni. Come Immacolata Capone, freddata a Sant’Antimo nel 2004. A volte crudeli. “È un uomo”, rivela il pentito Vincenzo Buono di Maria Rosaria Schiavone: “Si occupa persino di pulire le armi”. Violenta e spietata è la nipote del capo del clan dei Casalesi, dagli occhi taglienti e la mascella serrata; arrestata nell’aprile 2010 per estorsione aggravata e favoreggiamento alla camorra. 
Rosetta Cutolo, sorella di Raffaele; Anna Mazza vedova di Gennaro Moccia; Rosetta Petrosino, moglie del boss Vincenzo Marrazzo: lungo è l’elenco delle signore che nel corso degli anni hanno affiancato compagni, fratelli e figli all’interno dei clan camorristici; occupandone il posto e reggendo le fila del potere durante la loro prigionia. Crescendo in potere e indipendenza, diventando sempre più numerose.
Ma essere donne in Campania non vuol dire solo piegarsi al “sistema”.  Anzi. Ci sono donne e donne. Occhi e occhi. Quelli della legalità hanno le sfumature di una terra fertile. È minuta ma ha spalle larghe abbastanza da sopportare il peso di una vita blindata. Silvana Fucito, commerciante di vernici nel quartiere napoletano di San Giovanni, ha visto il mondo crollarle addosso quando nel 2002 la camorra le incendiò il negozio. Il motivo? Si era rifiutata di pagare il pizzo.  La reazione non si fece attendere. “Quella sera stessa andai a sporgere denuncia agli estortori”, ricorda in un’intervista rilasciata al Venerdì nel 2008.  Da quel momento la lotta al racket diventa il fulcro della sua vita. Nel 2005 il Time la inserisce nella classifica degli eroi europei definendola una combattiva donna d’affari. “Esistono centinaia di piccole storie di donne che hanno reagito al sistema”, assicura la giornalista Rosaria Capacchione. Lei è una di quelle. Nessuno ha documentato meglio le zone d’ombra dell’amministrazione comunale casertana; la radicata collusione con la camorra; gli affari dietro la gestione dell’emergenza rifiuti. Evitando qualsiasi riguardo per il potere. Così le minacce arrivarono presto: lettere; telefonate; perfino un piano per “sopprimerla”, come rivelato nel ’96 dal pentito Dario De Simone. Poi Spartacus: il processo alla mafia più importante degli ultimi quindici anni. Rosaria lo segue, spulciando carte e sentenze. Senza mai stancarsi. Non si stanca neanche Alessandra Clemente, figlia di Silvia Ruotolo uccisa per errore nel 1997 durante una sparatoria all’Arenella tra camorristi rivali. Aveva nove anni quando dal balcone di casa vide la madre accasciarsi a terra sotto i colpi di un’arma da fuoco. Oggi ne ha 25 e la rabbia che si accese nel suo cuore quel giorno è motore di un impegno concreto. Da Libera, associazione di don Luigi Ciotti, alla Fondazione Po.lis., con don Tonino Palmese e Paolo Siani, fino a Silvia Ruotolo Onlus inaugurata nel 2011. “La donna, madre, è trasmettitrice di valori. Quando una madre sceglie la camorra, consegna la morte al proprio figlio”, dice Alessandra. E ha occhi d’un azzurro cristallino. Bellissimi.

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