41 anni fa l’omicidio del magistrato Pietro Scaglione e dell’agente Antonino Lorusso
Lo uccidono il 5 maggio del 1971, a Palermo. Era un magistrato integerrimo e in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata. Era il procuratore capo della Repubblica Pietro Scaglione. Il suo omicidio ha segnato l’inizio del martirologio nella magistratura italiana. Rimase vittima di un agguato mafioso – con il fedele agente Antonio Lorusso – alle ore 10.55 del 5 maggio del 1971 in via Cipressi a Palermo. Ancora non si conoscono né i mandanti né gli esecutori del duplice omicidio.
Nel 41esimo anniversario della morte di Lo Russo e Scaglione la famiglia Scaglione ripercorre la vita del magistrato e l’inchiesta giudiziaria. «E’ stato accertato che i possibili moventi del delitto sono in ogni caso da ricollegare all’attività giudiziaria svolta “in modo specchiato” e inflessibile dal magistrato, soprattutto nella repressione della mafia – scrivono i familiari. Nella sua lunga carriera di giudice e, soprattutto, di pubblico ministero, iniziata nel 1928, Pietro Scaglione si occupò dei principali misteri siciliani: dal banditismo del dopoguerra agli assassini dei sindacalisti Placido Rizzotto e Salvatore Carnevale, dalla strage di Portella della Ginestra alla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro».
«Tanti i misteri siciliani di cui il magistrato s’era occupato. «Per quanto riguarda gli “Atti relativi ai mandanti della strage di Portella della Ginestra”, nelle Conclusioni del PM Pietro Scaglione (datate 31 agosto 1953) – continua la nota – i moventi principali accreditati furono i seguenti: la lotta “ad oltranza” contro il comunismo che Salvatore Giuliano “mostrò sempre di odiare e di osteggiare”; la volontà da parte dei banditi di accreditarsi come “i debellatori del comunismo”, per poi ottenere l’amnistia; la volontà di “usurpazione dei poteri di polizia devoluti allo Stato”; la “difesa del latifondo e dei latifondisti”. In relazione agli assassini dei numerosi sindacalisti siciliani negli anni Quaranta e Cinquanta, l’allora sostituto procuratore generale Pietro Scaglione chiese il rinvio a giudizio per i mafiosi imputati nel processo Rizzotto e per i campieri accusati dell’omicidio Carnevale. Nelle sue dure requisitorie, il pm Scaglione parlò di “febbre della terra” e ricondusse il movente alle coraggiose lotte sindacali di Carnevale e Rizzotto. Al riguardo, il Generale Dalla Chiesa testimoniò davanti all’autorità giudiziaria, dichiarando che il magistrato Scaglione “quando esercitava le funzioni di pubblico ministero all’udienza aggrediva la mafia”».
«Dopo la strage di Ciaculli del 1963, grazie soprattutto alle inchieste condotte dall’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo (guidato da Cesare Terranova) e dalla Procura della Repubblica (diretta da Pietro Scaglione) “le organizzazioni mafiose furono scardinate e disperse”, come si legge nella Relazione conclusiva della Commissione parlamentare antimafia del 1976. Secondo quanto scrisse il giornalista Mario Francese (ucciso nel 1979), il procuratore Pietro Scaglione “fu convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni. E’ il tempo del cosiddetto braccio di ferro tra l’alto magistrato e i politici, il tempo in cui la “linea” Scaglione portò ad una serie di procedimenti per peculato o per interesse privato in atti di ufficio nei confronti di amministratori comunali e di enti pubblici”; il riacutizzarsi del fenomeno mafioso, nel biennio 1969-1970, “aveva indotto Scaglione ad intensificare la sua opera di bonifica sociale”, infatti, richieste di “misure di prevenzione e procedimenti contro pubblici amministratori ……. hanno caratterizzato l’ultimo periodo di attività del Procuratore capo della Repubblica” (M. FRANCESE, Il giudice degli anni più caldi, in il Giornale di Sicilia, 6 maggio 1971, p. 3)».
«In questo contesto – come affermò Paolo Borsellino (in La Sicilia, 2 febbraio 1987, p.10) – la mafia condusse una campagna di eliminazione sistematica degli investigatori che intuirono qualcosa. Le cosche sapevano che erano isolati, che dietro di loro non c’era lo Stato e che la loro morte avrebbe ritardato le scoperte. Isolati, uccisi, quegli uomini furono persino calunniati. Accadde così per Scaglione […]. L’uccisione del procuratore Scaglione – come scrisse, a sua volta, Giovanni Falcone (in La Posta in gioco, edizioni Bur, 2011, p. 320) – ebbe sicuramente lo scopo di dimostrare a tutti che Cosa nostra non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria, ma che era sempre pronta a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino».
«Il Procuratore Scaglione svolse, con impegno e dedizione, anche la funzione di Presidente del Consiglio di Patronato per l’assistenza alle famiglie dei detenuti ed ai soggetti liberati dal carcere, promuovendo, tra l’altro, la costruzione di un asilo nido; per queste attività sociali, gli fu conferito dal Ministero della giustizia il Diploma di primo grado al merito della redenzione sociale, con facoltà di fregiarsi della relativa medaglia d’oro – conclude la nota. Infine, con Decreto dello stesso Ministero della Giustizia del 1991, previo parere favorevole del Consiglio Superiore della Magistratura, Pietro Scaglione fu riconosciuto magistrato caduto vittima del dovere e della mafia».
* a cura della Famiglia Scaglione –
Fonte: Libera.it
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