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#IJf12 – L’Aquila dimenticata

Di redazione il . Abruzzo

27 secondi  hanno distrutto millenni di storia e cultura. L’Aquila 2009 e il sisma che il 6 aprile del 2009 fece 309 morti e cambiò il volto di una intera città che ancora oggi fatica a rinascere. Al Festival internazionale del giornalismo si parla del disastroso terremoto che ha distrutto la comunità aquilana e soprattutto di questi primi anni di interventi che hanno lasciato sostanzialmente tutto fermo. E anche l’informazione, oltre alla politica, ha avuto un ruolo importante. Al Panel organizzato dall’Associazione ex studenti della scuola di giornalismo di Perugia, rappresentata dalla giornalista della sede Rai Abruzzo, Roberta Mancinelli che ha moderato il dibattito, sono intervenuti il rettore dell’Università de L’Aquila, Ferdinando Di Orio,il fotoreporter Stefano Schirato, le giornaliste Maria Luisa Busi della Rai e Stefania Ulivi del Corriere della Sera, Angelo Venti, giornalista freelance e referente dell’associazione Libera sul territorio.
Sono le immagini dell’Aquila poche ore dopo il terremoto ad introdurre subito il dibattito, attraverso la testimonianza del fotoreporter Stefano Schirato che spiega “quando ho visto quello che era accaduto a L’Aquila, dopo tanti lavori fatti all’estero, ho sentito di dover andare lì. Non sono aquilano ma volevo capire cosa stesse accadendo e soprattutto condividere quelle sensazioni delle prime ore. Inizialmente andai da volontario, solo dopo sono rimasto “ingaggiato” da un giornale”. Le foto raccontano molto de L’Aquila, e soprattutto, raccontano che in buona parte da quel 2009 poco o niente  è cambiato. O meglio, tanto è cambiato per la vita di tutti gli aquilani, ma niente per quel che riguardava il piano di ricostruzione, tanto atteso. Eppure anche se già dai primi giorni in molti, anche dentro le istituzioni, come racconta il rettore dell’Università de L’Aquila, Di Orio, c’è chi ha provato a resistere, a non farsi convincere da chi diceva “la città ormai è morta”. “L’Università è finita  dicevano – commenta Di Orio – ma noi, una città nella città, siamo riusciti a dimostrare che si sbagliavano. Sono ancora 25 mila gli studenti che continuano a frequentare il nostro polo universitario e siamo ripartiti subito, anche dentro capannoni, anche quanto tutti remavano contro”. Di Orio racconta di istituzioni centrali che da subito avevano data per “morta” la città, di mancanza di un piano di ricostruzione, soprattutto sul versante sociale, quello che riguarda la vita delle persone e le relazioni umane
Giornalismi e verità. . L’Università è stata il primo segnale di resistenza ma ce ne sono stati altri.  C’è stato quello spontaneo ma metodico del freelance Angelo Venti che  solo poche ore dopo la scossa di terremoto, aveva subito capito che “qualcosa non andava bene” e non s’è subito fidato di quello che dicevano le veline dei palazzi: è rimasto fuori dalle tendopoli, ha messo in piedi una redazione on the road e ha cominciato a scrivere, a produrre un ciclostilato e monitorare la situazione. Da quelle prime inchieste, sono scaturiti molte inchieste giudiziarie: da quello per la rimozione delle macerie in piazza d’Armi, a quella sui bagni chimici. “Non mi faccio illusioni su come finiranno queste inchieste – dice Venti – ma all’epoca capimmo subito che c’era qualcosa di strano. Quello che abbiamo visto in quei giorni è l’applicazione del “modello Baghdad” dell’informazione applicato in Italia. I giornalisti si potevano muovere e si muovevano solo accompagnati dal personale della protezione civile o delle forze dell’ordine. Solo rimanendo fuori da questo circuito siamo riusciti ad avere e dare informazioni. 
E L’Aquila è stata un banco di prova anche per i giornalisti del servizio pubblico. Una di loro, Maria Luisa Busi, il noto volto che per tanti anni ha condotto il Tg1, ha maturato proprio nel suo viaggio a L’Aquila per un servizio da inviare al Tg, la decisione di denunciare quella situazione. “Quello che è avvenuto a L’Aquila – dichiara la Busi – è la rottura di un patto di lealtà con i cittadini, che sono il nostro unico editore. Non si trattava di una separazione consumata solo in quelle settimane post- sisma era qualcosa di più profondo, un percorso di propaganda che io chiamo “populismo mediatico” che si è sviluppato negli ultimi 17 anni”. L’Aquila – racconta l’ex volto del primo Tg del servizio pubblico – è stata un laboratorio che ha consentito di mettere a punto questa propaganda, che si nutre di rappresentazione e non di informazione”. Dopo le contestazioni al Tg1 la Busi deciderà di lasciare la conduzione del Tg, in aperta divergenza di vedute con la direzione della testata.  “Vogliamo un servizio pubblico libero, che non rompa più questo patto di lealtà con i cittadini – conclude la Busi, per questo ho scelto di sacrificare la mia carriera per rispettare il mio lavoro”.  
La Busi è stata una giornalista che ha avuto il coraggio di resistere  e di cambiare. E proprio di “resistenti” si parla in chiusura insieme a Stefania Ulivi, giornalista del “Corriere della Sera” che ha dato il via ad un blog la 27esima ora e ora anche ad un racconto filo – diretto con le donne de L’Aquila perché – dice – “se riparte l’Aquila riparte anche l’Italia. Per molte donne isolate e strappate al proprio contesto sociale e al lavoro, spesso, il web sta diventando uno strumento di comunicazione, denuncia, consolazione in grado di dare loro forza”. Per questo la 27esima ora ospita la voce delle aquilane e questa loro resistenza attiva che potrebbe essere la chiave di volta per uscire da questa situazione statica. E tre anni dopo: dimenticata. 

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