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Rosaria Capacchione, una giornalista “Capatosta”

Di Rosita Rijtano* il . Campania

“Raccontare. Un cronista non può fare altro”, Rosaria Capacchione ha le idee chiare su come fare il suo mestiere. Non è difficile immaginarla china sul microscopio. A esaminare provette con la stessa perizia che dedica ai fatti. Da ragazza sognava di diventare medico. Il giornalismo? Solo uno dei tanti interessi. “In realtà volevo fare la ricercatrice. Mi piacevano molto la microbiologia e la genetica”, spiega con aria nostalgica. Oggi è una delle migliori croniste di giudiziaria che lavorano nel nostro Paese. Nel 2010 la rivista americana Newsweek l’ha inserita nella lista delle grandi donne d’Italia. Al fianco del premio Nobel Rita Levi Montalcini.

Piccola soddisfazione per chi sperava nella carriera da studiosa. La rigorosità scientifica però non l’ha mai tradita. Anzi. È diventata un’ossessione. “Il motivo che si cela dietro il fatto lo devo trovare. Costi quel che costi. Le risposte ufficiali non mi bastano mai”, chiosa.    

Alla carta stampata è arrivata per caso: “Mio padre aveva una quota di partecipazione in un piccolo giornale. L’idea di lavorarci mi piaceva e volevo provare. Non sono più andata via”. Il suo non è stato un colpo di fulmine, ma un grande amore. Di quelli che maturano con il tempo e durano tutta la vita. A folgorarla inizialmente è la macchina, più che la scrittura: trascorre notti intere in tipografia, titola e impagina. Capacità che le apre le porte di tutti i giornali: “Vivevo a Latina e trovai lavoro in un piccolo settimanale sportivo. Un giorno il direttore mi propose di accompagnarlo in stamperia. Andai”. Da quel momento in poi chiesero solo di lei, la napoletana. “Mandateci la picciridda”, era l’ordine. Aveva solo vent’anni, eppure nessuno riusciva a starle dietro. “Chiudevo il giornale in un’ora anziché in un giorno. Non ho mai superato l’emozione di portare a casa la notte il giornale che sarà in edicola il giorno dopo. È come se tu sapessi qualcosa prima degli altri”. Le storie arrivarono solo dopo.   

 È domenica pomeriggio e la redazione de “Il Mattino” brulica di giornalisti. Al terzo piano di Via Chiatamone numero 6, Rosaria trascorre buona parte dei pomeriggi. Arriva dopo ora di pranzo e va via quando è buio. Dalla sua stanza esce solo per prendere il caffè e fumare. “Amo profondamente la mia terra ma non al punto di considerarla l’unico luogo al mondo dove potrei vivere”, confessa bevendo d’un fiato il terzo espresso. “Rimango qui perché ho il mio lavoro. Però mi piacerebbe vedere il mondo per poterlo raccontare. È con lo stesso spirito che cerco di parlare della mia terra: come se la vedessi da esterna”. In realtà Caserta la conosce benissimo. Nessuno meglio di lei ha documentato le zone d’ombra  dell’amministrazione comunale; la radicata collusione con la camorra; gli affari dietro la gestione dell’emergenza rifiuti. Evitando qualsiasi riguardo per il potere.    

Le minacce alla “zoccola ragazzina” arrivano presto: lettere; telefonate; perfino un piano per “sopprimerla”, come rivelato nel ’96 dal pentito Dario De Simone. Poi Spartacus: il processo alla mafia più importante degli ultimi quindici anni con 113 accusati e 500 testimoni; una doccia scozzese per la criminalità locale, gestita dal clan dei Casalesi. Rosaria lo segue, spulciando carte e sentenze. Senza mai stancarsi. “Sono una cronista, svolgo solo la mia professione”, ribatte escludendo ogni appello quando si accenna alla lotta contro la camorra. “Se ciò coincide con l’impegno sociale, vuol dire che c’è qualcosa che non va nel nostro mestiere; che qualcuno non fa il proprio dovere”.    

Lei invece il suo lavoro lo fa bene. Riesce a conoscere tutto degli imputati, tanto da fare paura. “Francesco Bidognetti e Antonio Iovine mi accusarono in pubblico d’influenzare la Corte d’Appello con i miei articoli. Volevano farmi fuori”, ricorda. Lo sguardo diventa acuto, difficile da penetrare. Quasi impossibile farle domande. È lei a dettare legge durante l’intervista. Argomento particolarmente delicato: la scorta imposta quattro anni fa che la segue sempre e ovunque. Pentita? “No, mai. È un po’ fastidioso però si sopravvive…”, dice con aria di sufficienza. Chissà se lo pensa davvero.    

Dopo l’arresto di Zagaria, quale futuro per i Casalesi?    

La struttura del clan – com’è raccontata nel processo Spartacus – era cambiata già prima. Più che la cattura del latitante, a creare problemi è stata la morte per infarto del cognato, Franco Zagaria: la mente imprenditoriale. Credo però che la famiglia continui a essere molto forte e a controllare settori economici strategici.    

C’è qualcuno che cerca di approfittare della situazione?    

I figli di Schiavone stanno creando parecchi problemi. Vorrebbero assumere il comando ma sono arroganti, violenti e cocainomani. Lontani dalle logiche di Zagaria, il cui modello è Provenzano. Quindi molto più orientato a una mafia di tipo imprenditoriale ed economico.    

Quali sono i nuovi affari?    

Non si fanno mancare niente: il gioco; il commercio di autovetture di lusso; gli stabilimenti balneari. Quello che vuoi.    

Le alleanze con le altre mafie, in Italia e all’estero.    

In genere le grandi mafie non fanno la guerra, si alleano. All’interno dei confini italiani i Casalesi hanno ottimi legami con la ‘ndrangheta. Mentre all’estero i rapporti sono stabili con la mafia dell’est: Romania, Albania e Russia. Di recente il pentito Vargas ha parlato di un collegamento con Al Qaeda. La connessione esiste ed è anche documentata da tempo. Ma non è un’unione ideologica, bensì d’interessi.    

Vargas ha parlato anche di un accordo per uccidere il procuratore Federico De Raho. Lei ha dei timori?    

Parto dal principio che se sono nata, prima o poi devo anche morire. Personalmente non ho mai avuto paura di Zagaria. Credo che se un giorno decidesse la mia morte, nessuno sarebbe in grado di fermarlo.  Quindi è inutile pensarci. A farmi paura sono i figli di Schiavone: ragazzi senza una visione strategica della criminalità che sono in grado di compiere anche un omicidio dimostrativo.    

Che cosa vuol dire parlare di terzo livello in Campania?   

 Non credo all’esistenza di compartimenti stagni. Penso che di volta in volta ci siano stati degli accordi. Giunti anche a terzi o quarti livelli: apparati di sicurezza, lobby e consorterie, più che partiti politici. A mio parere – come in Sicilia – lo Stato ha tacitamente voluto delegare alla mafia degli affari, la tutela dell’ordine pubblico. Accordo che è stato palese durante la gestione dell’emergenza rifiuti.    

La situazione è migliorata?    

Non abbiamo ancora smesso di produrre immondizia. Quindi dovremmo anche trovare dove metterla. Non ho ancora capito come hanno deciso di smaltire i rifiuti. E l’idea di trasportarli altrove, per inquinare altri paesi e far morire altri al nostro posto, la trovo ipocrita, egoistica e scandalosa. Perciò credo che per un periodo l’inceneritore serva.  

E le infiltrazioni mafiose nella gestione degli appalti? &
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Perché nell’inceneritore sì e nelle discariche no? Nel trasporto dei rifiuti no? Anzi. Più passaggi intermedi ci sono, più è rischioso. Con l’inceneritore il pericolo si dimezzerebbe.    

Secondo lei il cambiamento è possibile?    

Forse la crisi ci farà bene. Se sapremo come sfruttarla.  

Qual è il ruolo delle donne nella lotta contro la camorra?     E

sistono centinaia di piccole storie di vita quotidiana. Persone che hanno reagito al “sistema” e che sono fondamentalmente donne. Perché poi il perpetuarsi del potere mafioso passa tutto attraverso le madri, le famiglie. Il cambiamento parte dall’educazione.    

Che cosa pensi debba fare un giornalista?    

Raccontare. Un giornalista non può fare altro. Quando vuole fare qualcosa in più, sbaglia.     

* L’intervista è stata pubblicata sul periodico “Casablanca” diretto da Graziella Proto  (scarica in allegato il pdf del giornale)

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