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Qui lo Stato ha vinto

Di redazione il . L'analisi

Un casolare nelle campagne siciliane, un tempo feudo dei boss oggi è sede di attività sociali e culturali. Accade nel nostro Paese dal 1996 quando la legge 109, ottenuta dopo la raccolta di un milione di firme, rafforzò e completò l’intuizione di Pio La Torre, sulla confisca dei beni ai mafiosi, introducendo il loro riutilizzo sociale. Da due anni, un’agenzia nazionale  si occupa di seguire i beni in questo complesso iter che va dal sequestro, alla confisca, alla gestione e al loro riutilizzo a fini sociali e istituzionali. L’Agenzia riconfermata  anche dalle norme contenute nel neonato “Codice antimafia” avrà  sempre più un ruolo centrale in questo percorso di riscatto dall’economia mafiosa. Solo nel 2011 – secondo l’ultima relazione dell’Anbsc – sono stati 3.364 i beni immobili confiscati alla criminalità organizzata. Il 33 percento, secondo le stime dell’agenzia, è stato riutilizzato a fini sociali. Il 21 percento, invece, si trova in vendita, una discussa opzione consentita dalla legge (nei casi in cui nessun altra soluzione si renda possibile per quel particolare immobile). Sono ancora Sicilia, Calabria e Campania le  regioni che fanno registrare il maggior numero di beni confiscati alla criminalità organizzata, ma avanzano anche quelle del centro – nord, dopo le numerose operazioni realizzate  in territori come la Lombardia, il Lazio e la Liguria. Nodo complesso da sciogliere rimane in questi anni la riconversione delle aziende un tempo in mano ai boss e oggi impegnate in un percorso di “rinascita” e conversione nell’economia legale e nel mercato della libera concorrenza. Eppure, come racconta l’ultima relazione dell’Anbsc – qualcosa sta cambiando anche in questo settore.  
Dove i boss hanno perso
Si concentrano ancora a Palermo il maggior numero di immobili sottratti all’economia dei clan e riportati a piena attività legale, grazie alla confisca e al riutilizzo sociale. Secondo i dati forniti dall’Agenzia nel capoluogo siciliano sono presenti 1910 beni, il 18 percento circa del totale. In sostanza, il 10 percento dei comuni italiani è interessato dalla presenza di beni confiscati sul territorio. Di questi, l’11 percento è sede di attività istituzionali o delle forze dell’ordine. Solo la Valle d’Aosta e l’Umbria risultano ancora fuori da questa gradutoria che riguarda gli immobili. Ma non da quella che riguarda le aziende, vero tallone d’Achille dell’attuale sistema normativo. Rimettere in piedi un’attività economica è, infatti, ancora oggi una sfida per tutti: società civile, Stato, Regioni e enti locali. E amministratori giudiziari che si trovano a gestire “il passaggio” dai boss a i futuri proprietari. 
Al 31 dicembre del 2011 le aziende confiscate in Italia e dunque in gestione sono circa 1500, di cui 139 nell’ultimo anno; quelle da destinare in totale 305. La maggior parte di questo “tesoro” sottratto ai boss, giace ancora una volta in Sicilia ma sono presenti anche in Lombardia (13,5 %), Campania (20,5%), Calabria (8,9%) Lazio, Puglia (circa il 7,% ciascuna).  Attraverso la cartina di tornasole dei beni confiscati, infatti, è possibile capire su quali settori i clan hanno maggiormente messo le mani: commercio e edilizia, risultano quelli più infiltrati. Ma a seguire  (152 aziende confiscate) anche la filiera del turismo (alberghi, in particolare) e la ristorazione. Un valore economico, quello dei beni confiscati, che complessivamente ammonterebbe a circa 382 milioni di euro (la stima è su 1.972 beni – vedi in allegato il documento integrale dell’Anbsc, ndr)
Il peso delle banche sui beni confiscati
Sui 3.364 beni monitorati dall’agenzia, 1.556 sono gravati da ipoteche bancarie, cioè i debiti accumulati dai boss su quelle aziende o su immobili. Da anni la rete di associazioni aderenti a Libera chiedono di sgravare questi beni dal peso che si portano dietro e che ne impedisce, nella maggior parte dei casi, un immediato riutilizzo economico o sociale. Un fattore che è una spada di damocle che pende sui beni confiscati in via definitiva e pronti per il riutilizzo. Molti di questi beni hanno anche procedure giudiziarie in corso, sequestri penali e altri risultano inagibili. Perché il sistema del riutilizzo e della “liberazione” dei beni dall’economia perversa della mafia funzioni c’è bisogno che il mondo delle banche e quello delle istituzioni risolvano questo nodo. «Serve rendere più efficace e certa  – dichiara Davide Pati, dell’Ufficio beni confiscati dell’Associazione Libera –  la procedura della confisca e dell’affidamento dei beni ma anche di rafforzare le strutture, come l’Agenzia nazionale, che se ne occupano». Si tratta, in sostanza, di ottimizzare gli aspetti che riguardano la destinazione dei beni  e l’organizzazione dell’Agenzia, nel nuovo testo antimafia, il codice da poco varato in Parlamento. Più risorse economiche e umane all’Agenzia permetterebbero di schiacciare il piede sull’acceleratore e rilanciare questo strumento che  – ad oggi  – è il vero motore dell’attività antimafia che affianca e aiuta l’aspetto repressivo della lotta alle mafie. 

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