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Stragi, «ci fu trattativa fra mafia e Stato»

Di redazione* il . L'analisi

liberainformazione.org/news.php?newsid=16919″>Dopo i 4 arresti per l’inchiesta di via D’Amelio  della procura di Caltanissetta,  da  Firenze arrivano le motivazioni della sentenza di condanna per il boss Francesco Tagliavia, uomo dei Graviano e coinvolto nelle stragi che colpirono Roma, Firenze e Milano nel 1993. Provvedimenti giudiziari che assomigliano a tessere di un mosaico, troppo a lungo tenute distanti e che oggi cominciano a trovare collocazione. Nelle oltre cinquecento pagine della sentenza di condanna  per Tagliavia  si ripercorrono i vent’ anni di indagini su questo attacco al cuore dello Stato da parte della mafia ma anche una certa disorganizzazione, incertezza e qualche ombra, in merito alla risposta istituzionale, soprattutto dopo gli attentati di Capaci e via D’Amelio. Oltre a confermare le responsabilità del boss di Brancaccio, nelle conclusioni della sentenza arriva anche da Firenze una conferma: «ci fu una trattativa mafia – Stato».

Dopo una  documentata analisi di fatti e dichiarazioni di collaboratori di giustizia, che in diversi momenti storici e da molteplici punti di vista, hanno raccontato la genesi e la fine del biennio stragista, i magistrati arrivano a conclusioni che –  dopo la nuova inchiesta su via D’Amelio – suonano come conferme . E lasciano aperti molti interrogativi. Fra questi: il ruolo degli interlocutori in questa “trattativa mafia – Stato”, la loro identità, i messaggi che Cosa nostra “interpretò” in quel momento come forme di dialogo, come quello lanciato con la revoca del carcere duro per alcuni boss  (scelta che il Guardasigilli Conso ha confermato, in più sedi, di aver preso in assoluta solitudine).

Le stragi di Roma, Firenze e Milano

Dopo la strage di via D’Amelio che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e ai colleghi della  scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, Cosa nostra persegue con le bombe che i magistrati definiscono “stragi con finalità terroristiche e eversive in concorso con l’associazione mafiosa”. Si tratta dei tre attentati “nel continente”. A Roma,  quello contro il giornalista Maurizio Costanzo  (colpevole – come dichiarano i collaboratori di giustizia – di aver intrapreso una “campagna antimafiosa” nei suoi programmi televisivi) che si salvò dall’esplosione e quello contro le chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro;  a Milano quello compiuto in via Palestro nel luglio del ’93 dove un’autobomba esplose nei pressi del Padiglione di arte contemporanea causando cinque morti: i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l’agente di Polizia Municipale, Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, un immigrato marocchino che dormiva su una panchina. E in principio Firenze: la strage di via dei Gergofili che precede e anticipa le altre e nella quale perdono la vita in cinque: le piccole Caterina Nencioni  e Nadia Nencioni, lo studente Dario Capolicchio, Angela Fiume e  Fabrizio Nencioni, mentre 48 persone rimangono ferite. L’attentato viene compiuto la notte fra il 26 e il 27 maggio a Firenze, con l’esplosione di una autobomba  nei pressi della Torre dei Pulci.

La sentenza che condanna Tagliavia come co-autore delle stragi ma anche dell’attentato fallito allo stadio Olimpico che avrebbe «dovuto colpire l’arma dei carabinieri» sono secondo le motivazioni della sentenza, da inquadrarsi in un complesso biennio di “dialogo” cercato, ipotizzato, tentato e voluto, fra parti dello Stato e i vertici di Cosa nostra. Un dialogo a colpi di bombe che – in realtà – si è svolto in diverse fasi e ha visto come presunti protagonisti, diversi personaggi. I numerosi collaboratori di giustizia, da Brusca a Spatuzza, parlano in anni diversi e da punti di vista differenti ma pur sempre di rilievo dentro Cosa nostra, di questo tentativo che per Riina – dicono – “era un’ossessione” di aiutare i detenuti e soprattutto chiedere un cambiamento del 41 bis, ritenuto per molti di loro, un regime carcerario durissimo e soprattutto in grado di incidere sulla dignità e il ruolo (dunque il rispetto all’esterno) dei boss di Cosa nostra. Quello di “un attacco su Roma”  secondo i magistrati di Firenze è in realtà un progetto che l’ala vicina a Riina cullava da tempo. Un progetto interrotto più volte, come quando si diede priorità all’omicidio del politico Salvo Lima il 12 marzo del 1992 o si rinunciò a colpire nella capitale Giovanni Falcone e l’allora ministro della Giustizia, Claudio Martelli. E che tornano centrali dopo l’attentato in via D’Amelio e l’inasprimento del regime carcerario per i boss di mafia.

Uno Stato sotto ricatto

Così le azioni e le reazioni degli uomini delle istituzioni in quel biennio sembrano la risposta ad una strategia mafiosa funzionale ad un ricatto. Secondo il Tribunale di Firenze, presieduto da Nicola Pisano, la trattativa «indubbiamente ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des». In concreto, quella che comunemente chiamiamo “trattativa” è il frutto di diversi e singoli, canali di dialogo che sono stati avviati con alcuni esponenti della mafia. Secondo il generale Mario Mori che aveva preso contatti con l’allora sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, erano indirizzate all’arresto dei grandi latitanti, fra questi Totò Riina, poi fermato nel gennaio del 1993 e secondo i collaboratori di giustizia e le prove raccolte a Palermo e a Caltanissetta (nei rispettivi processi) invece, mirata ad annullare il 41 bis. All’interno delle motivazioni della sentenza vengono acquisite e ritenute attendibili le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza, per quel che riguarda le dichiarazioni sulle stragi. Spatuzza e altri collaboratori di giustizia, fra i quali Giovanni Brusca, Pietro Carra, Vincenzo Ferro, Salvatore Cancemi, già ascoltati in altri processi sul biennio stragista, raccontano di un cambiamento dell’attività stragista di Cosa nostra, soprattutto nel 1993. Sino a quel momento, spiegano, Cosa nostra aveva sempre agito eliminando direttamente e fisicamente il nemico e quasi sempre erano uomini delle istituzioni. In quella primavera – estate del ’93 invece perseguono un piano diverso. Usano autobombe per far saltare in aria monumenti, palazzi, luoghi sede di patrimonio artistico per il Paese. Scelgono il tritolo non per eliminare un nemico ma per mandargli un messaggio. Verso qualcuno – come sottolineato nelle motivazioni della sentenza contro Tagliavia – in grado di decifrarlo. Quello di un dialogo a colpi di bombe, sembra ancora oggi, il mosaico che viene fuori da queste tessere che lentamente trovano posto grazie a sentenze della magistratura. Sullo sfondo di questa scelta di colpire musei e luoghi del patrimonio artistico si stagliano vicende ancora non chiarite, come il ruolo di un uomo vicino ad ambienti di destra, sospettato della strage di Bologna, come Antonio Bellini che avrebbe “suggerito” questi attacchi al patrimonio storico- artistico italiano per mettere alle strette la politica. E poi anche il passaggio da quel “vogliono fatto rumore” detto da Bagarella a Ferro per intendere la necessità di continuare le stragi,  al silenzio e alla tregua che Cosa nostra ha messo in campo dopo il 1994. Trovando, si ipotizza ma non ci sono prove giudiziarie sufficienti sottolineano i magistrati di Firenze, un possibile interlocutore che dopo l’omicidio di Salvo Lima era venuto meno. Uno o più riferimenti politici per continuare il dialogo, sospendendo le bombe. 

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a cura di Norma Ferrara

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