Lea Garofalo, il suo nome nel lungo elenco di vittime delle mafie
«Sento il dovere di rivolgere al Pubblico Ministero la richiesta dell’aggravante ex articolo 7, utile anche ad individuare il movente. L’istruttoria ha fatto emergere che Lea Garofalo rappresentava un pericolo per Carlo Cosco e i suoi sodali; le modalità atroci con cui è stata fatta sparire rimandano alla criminalità». Roberto D’Ippolito, difensore di Marisa Garofalo e Santina Miletta, rispettivamente sorella e madre della testimone di giustizia con queste parole dà l’avvio alle sue richieste, a conclusione della fase dibattimentale del processo. L’aggravante del metodo mafioso torna dunque a far parlare di sé all’interno dell’aula della prima sezione della Corte di Assise del Tribunale di Milano. La legge 203/1991, al punto citato dal difensore di parte civile, stabilisce un “aggravamento di pena a carico di chi, nella commissione di reati, si avvale del metodo mafioso”.
Un’aggravante che nell’ordinanza di custodia cautelare non compare, in quanto derubricata dal gip di Milano Giuseppe Gennari. Quando a luglio il processo ebbe inizio, si parlò nell’immediatezza del fatto che il pm Tatangelo non volesse contestare l’aggravante del metodo mafioso. Le motivazioni di questa scelta saranno palesate nel corso della requisitoria in calendario per il 26 marzo; per il momento il pubblico ministero, rispondendo alla richiesta di D’Ippolito, ha fatto presente di aver deciso «con serenità, e mi assumerò tutte le responsabilità frutto della mia scelta». Richiesta che è stata rigettata anche dalla Corte. Secondo la legge, il riconoscimento dell’aggravante prevede che agli anni di reclusione ne siano aggiunti altri pari a 1/3 della pena complessiva. Nel caso del processo a carico di Carlo Cosco, dei fratelli Giuseppe e Vito, di Rosario Curcio, Massimo Sabatino e Carmine Venturino, la condanna prevista è l’ergastolo; inoltre, è ipotizzabile che, nel caso in cui il pm avesse avanzato la richiesta dell’aggravante, i tempi della fase istruttoria si sarebbero allungati di diversi mesi, con il rischio tangibile della caduta dei termini di custodia cautelare degli imputati, che sarebbero dunque tornati in libertà. Nulla vieta tuttavia, che possa essere riconosciuto un contesto mafioso nell’ambito del quale si è – per l’accusa e le parti civili – commesso l’efferato delitto. Le dichiarazioni del collaboratore Angelo Salvatore Cortese portano infatti in questa direzione, così come tutta una serie di intercettazioni agli atti (alcune delle quali sviscerate nel corso delle udienze). Un contesto mafioso che potrebbe essere rafforzato anche dal censimento che l’Aler (Azienda Lombarda per l’Edilizia residenziale), su impulso dell’Ospedale Maggiore di Milano, sta effettuando in viale Montello 6 (dimora anche dei Cosco) per verificare quanti alloggi – di proprietà del nosocomio – sono occupati abusivamente e quanti dati addirittura in subaffitto. E se gli imputati saranno riconosciuti colpevoli di aver sequestrata, torturata, uccisa e sciolta nell’acido Lea Garofalo con un coacervo di moventi non però a sfondo mafioso, non è da escludere che la giovane donna – già inserita nell’elenco delle vittime delle mafie stilato dall’associazione Libera – sia comunque riconosciuta una vittima della criminalità organizzata (visto che durante l’istruttoria dibattimentale è emerso il contesto mafioso in cui è maturato l’omicidio e per la stessa rilevanza delle dichiarazioni che aveva reso Lea all’autorità giudiziaria nel corso della sua collaborazione).
Esempi che hanno fatto letteratura in questo senso rimandano infatti a casi processuali addirittura archiviati ma che comunque, grazie ad un iter parallelo, hanno permesso ai famigliari di veder riconosciuta come vittima della criminalità organizzata il proprio caro. Nel corso dell’udienza di lunedì anche le difese avevano presentato le proprie richieste (ex articolo 507, ammissione delle prove) alla Corte, tutte rigettate ad eccezione dell’acquisizione di articoli giornalistici comparsi su diverse testate e in internet. Non saranno dunque ascoltati Giuseppina Scalise (moglie di Vito Cosco), il dentista di Lea Garofalo, la cugina Liliana né riascoltato il perito Testi, che aveva disquisito in merito all’utilizzo degli acidi e alle loro proprietà chimiche. Così come non saranno acquisiti le mappe di Milano e il fascicolo delle dichiarazioni che Lea Garofalo rilasciò al sistema di protezione. La breve udienza di giovedì primo marzo, invece, ha dato voce a Carlo Cosco, l’unico che ieri ha rilasciato delle dichiarazioni spontanee. L’imputato, foglio dattiloscritto in mano letto in un italiano stentato, si è dichiarato «estraneo ai fatti. Signor Presidente, giudicate con serenità, e se io dovessi risultare colpevole, i miei fratelli però sono innocenti». Cosco nomina solo una volta Lea Garofalo, altrimenti definita “la mia ex”, come non pronuncia mai il nome della figlia Denise. «Voglio specificare, signor Presidente, che se io avessi voluto uccidere la mia ex, l’avrei fatto a Pagliarelle, mica quella sera. Che poi avrei detto a mio fratello Giuseppe “Tieni mia figlia che devo uccidere la mia ex, invece non l’ho fatto”».
Carlo Cosco ha infine confutato tutte le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Cortese. Gli ultimi giorni di marzo saranno cadenzati da quattro udienze durante le quali le parti – accusa e difesa – presenteranno rispettivamente la requisitoria e le conclusioni.
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