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La strage dei carabinieri di Alcamo Marina

Di Rino Giacalone il . Sicilia

Estate del 1950, cortile De Maria in via Mannone a Castelvetrano. Nella città dei campieri mafiosi Messina Denaro si compie il primo dei delitti del dopoguerra frutto, oramai non ci sono più dubbi, delle commistioni tra Stato e mafia. Il bandito Giuliano viene trovato morto, volto a terra, nello sterrato del cortile. Canottiera intrisa di sangue, a terra nemmeno una goccia del suo sangue. Ucciso, dicono, dagli agenti che lo braccavano. Così fu raccontato per i cronisti che giunti da tutta Italia presidiarono la zona. Giuliano ucciso dai suoi compari si scoprì presto, Aspano Pisciotta, il suo braccio destro lo uccise per poi lui venire ucciso con un caffè all’arsenico mentre era in carcere all’Ucciardone di Palermo. Un delitto che fece guadagnare potere alla mafia, che più accumulava segreti, più era protagonista di commistioni, più si infiltrava nel tessuto sociale dell’isola, per arrivare poi dentro le banche, le istituzioni, l’industria.

Una decina di anni dopo altro mistero, altro giallo. La bomba piazzata nell’aereo di Enrico Mattei il presidente dell’Eni. Il velivolo decollò dalla Sicilia con dentro l’ordigno. Una morte che più che alla mafia serviva ai grandi potentati economici che gestivano il petrolio e dei quali Mattei era diventato il nemico pubblico numero uno. Erano gli anni in cui le rotte tra la Sicilia e i paesi Arabi sono parecchio frequentate, scambi anche e soprattutto illeciti, armi, droga. Anche dall’Est europeo si guarda alla Trinacria, le rotte commerciali sono le stesse sulle quali viaggia lo stupefacente. Le scopriranno negli anni ’80 due magistrati, una lavorava a Trento, Carlo Palermo, un altro a Trapani, Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Montalto fu ucciso il 25 gennaio del 1983, Palermo sfuggì ad un agguato di mafia, una bomba al tritolo piazzata dentro un’auto a Pizzolungo, il 2 aprile 1985, morirono Barbara Rizzo Asta ed i suoi due figli, i gemelli di sei anni, Salvatore e Giuseppe. Palermo e Montalto senza parlarsi si erano imbattuti in due nomi, Karl Khlofer e Nanai Crimi, altoatesino, narcotrafficante il primo, capo della mafia trapanese il secondo.  

La mafia è in contatto con ambienti esteri, i Messina Denaro, quelli di Castelvetrano, Francesco, il “patriarca” della mafia belicina, campiere delle più famose famiglie nobiliari e latifondiste di Trapani, come i D’Alì, i Piacentino, gli Aula, non a caso è soprannominato il “ministro degli Esteri” proprio per i suoi contatti con i paesi nord Africani e Arabi. L’Italia teme l’influenza di questi paesi ma deve essere cauta, il presidente del Consiglio di quegli anni è Giulio Andreotti, uno di quelli che di facciata è uomo alleato col Medio Oriente, ma dietro le quinte tenta di controllare le mosse di quella parte del mondo che è stata sempre in ebollizione. La mafia è lo strumento giusto per controllare senza tanta diplomazia. L’estrema destra è poi quella che con il terrorismo mediorientale va in un certo senso a braccetto, e in Sicilia ci sono i campi para militari per fare venire ad esercitare i terroristi italiani e stranieri. La mafia fa da garante, in cambio di droga, esplosivi e armi. In tutto questo in Sicilia però si continua a morire. Cadono uomini dello Stato, vengono dilaniati da autobombe i capi mafia, vengono uccisi i giornalisti, quelli che indagano anche sulle trame nere come Spampinato, De Mauro, o sulle grandi connessioni mafiose come Mario Francese, Pippo Fava, per fare alcuni nomi. Avvengono sequestri anomali, come quello dell’esattore Luigi Corleo di Salemi, sequestro che dopo il dolore farà la fortuna dei cugini esattori Nino e Ignazio Salvo, anche loro di Salemi, potenti uomini della Dc. Quando negli anni ’80 il Governo Spadolini decise di mettere mano ai guadagni degli esattori Salvo, il governo del leader repubblicano nello spazio di ore si sciolse.   In Sicilia dagli anni ’50 in poi, dalla morte del bandito Salvatore Giuliano, si è combattuta, e si combatte, una continua guerra, tanto che non a caso Paolo Borsellino diceva che la supremazia dello Stato, la democrazia e la libertà democratica, la si difendono facendo ogni giorno la guerra alla mafia in Sicilia, e Leonardo Sciascia preoccupato parlava anche della famosa “linea della palma” che poco a poco ha spostato in Europa i margini del territorio governato a questo punto non dalla mafia, ma dalle “mafie”. Uno Stato che però dentro aveva i suoi nemici, politici, imprenditori, deputati e ministri, assieme a vescovi e cardinali, erano quelli che nei salotti ospitavano i mafiosi, tanto rispettati e riveriti.
 
 In Sicilia si racconta che le cellule di Gladio arrivarono negli anni ’80. La struttura militare che doveva difendere l’Italia da una possibile invasione dell’Est europeo, in Sicilia, in un punto lontanissimo dalle frontiere dell’Est, aveva invece le sue basi già dagli anni settanta. Addirittura in provincia di Trapani di basi Gladio ne aveva ben quattro, una addirittura nella roccaforte comunista di Santa Ninfa, quando a comandare la casera dei carabinieri del paese belicino c’era un maresciallo tutto d’un pezzo, Giuliano Guazzelli, ammazzato poi nel periodo delle stragi ad Agrigento. Un delitto che fece pubblicamente inorridire il giudice Paolo Borsellino. Come se avesse compreso che quella non era una vendetta per le indagini commesse. Ma forse qualcos’altro. Era il periodo in cui il dialogo sottobanco con le istituzioni la mafia aveva decido di interromperlo. E mandava segnali. Segnali di morte. Nel trapanese Gladio aveva una pista dove faceva atterrare aerei super leggeri, la stessa pista, dalle parti di Castelluzzo, in un punto in cui i radar non vedono niente, che secondo i pentiti della mafia siculo americana era quella utilizzata per fare arrivare la droga da raffinare. E come ha raccontato il pentitoa Francesco Marino Mannoia in provincia di Trapani non solo c’erano le raffinerie stabilmente impiegate, ma anche quelle mobili.

Gladio come struttura del “dialogo” tra la mafia e lo Stato. Non è da escludere. Tenere sotto attenzione i movimenti in Medio Oriente e in Nord Africa per lo Stato può avere significato pagare un prezzo. Un prezzo alla mafia che si è messa di mezzo, ha aperto i suoi canali. Ha giocato al solito con più mazzi di carta, talvolta, e non di rado, facendo i lavori sporchi. Eliminando i soggetti scomodi.  Ai magistrati di Trapani che negli anni ’90 indagavano su Gladio venne preso a mancare una «pedina» importante, il capo del «Centro Scorpione», il maresciallo del Sismi Vincenzo Li Causi, ucciso, nel 1993, in circostanze misteriose in Somalia dove era andato in missione. Si disse durante un improvviso conflitto a fuoco, ma tanti dubbi sono rimasti. Li Causi, originario di Partanna, era in procinto di tornare in Italia, per essere sentito proprio dai magistrati di Trapani che indagavano su Gladio. Il suo nome è circolato anche a proposito del delitto, sempre commesso in Somalia, un anno dopo il suo, di Ilaria Alpi, Li Causi infatti sarebbe stato la sua «fonte» sui traffici di armi e di scorie coperti da settori governativi.
 
Di Gladio trapanese si è tornati a parlare da quando è saltato fuori che l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, avrebbe potuto fare parte della struttura segreta. Lo ha svelato il figlio dell’ex sindaco, Massimo, nei giorni più intensi di rivelazioni e rivelazioni sulla trattativa tra Stato e mafia. Scacchiere nel quale si muovevano anche i mafiosi trapanesi. Alcuni di questi avrebbero avuto contatti con agenti dei servizi. Legami maturati nel tempo, dietro i quali ci potrebbero essere traffici di armi come un ex gladiatore afferma in una intervista Rai del 2006. Il video gira su Youtube. È estrapolato da una puntata di una trasmissione di Rai Tre che si occupò del delitto
della giornalista Rai Ilaria Alpi. Incappucciato e presentato da chi lo intervista come ex appartenente a Gladio, c’è un uomo che racconta, parla di traffici di armi, e di scorie pericolose. Parla di Gladio, dice «una struttura impiegata per i traffici di armi». La ricostruzione non è nuova. «Gladio» usata per far passare da una punta all’altra dell’Italia, carichi di armi o di rifiuti tossici, destinati poi a paesi esteri. Un traffico che secondo un ex faccendiere, Francesco Elmo, si sarebbe intensificato dagli anni ’80 in poi. Quell’«intensificato» fa presupporre che esistevano anche anni prima. In Sicilia poi ci sarebbe stato un particolare in più i «contatti» con la organizzazione mafiosa. «Gladio spiava Cosa nostra» ha fatto mettere a verbale Paolo Fornaro, uno degli ufficiali che si occupava di «Gladio» trapanese, Elmo invece parlò semmai di un vicendevole scambio di favori tra la struttura segreta ed i mafiosi. La presenza tra i «gladiatori» di Ciancimimo in questo senso potrebbe starci per davvero. Lo scenario è quello che sembra possa coincidere con quello del delitto Rostagno (26 settembre 1988) dove non è una sensazione la possibilità di «contatti» tra mafiosi e «soggetti esterni» interessati a quell’omicidio. Non dimentichiamo che il magistrato Giovanni Falcone che seguiva il processo La Torre e le attività dei Servizi Segreti fu bloccato nella sua richiesta di contatti con i magistrati romani che indagavano su Gladio dal procuratore di Palermo Pietro Giammanco. Falcone riteneva che su questo punto si dovesse indagare, Gladio col delitto La Torre poteva entrarci qualcosa, ma si trovò di fronte a un muro posto dal procuratore Capo. Gladio destò anche molto interesse al magistrato Carlo Palermo che nel suo libro “Il quarto livello” scrive che “a Trapani era presente una base militare Nato.  
 
 Alcamo Marina, 26 gennaio 1976. La cronaca ufficiale ci consegna la storia di due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, che durante quella notte vengono barbaramente uccisi, dagli armadi scompaiono divise e armi. Verranno scoperti l’indomani, la mattina del 27 gennaio di 26 anni addietro, da una pattuglia di Polizia che scorta il segretario nazionale dell’Msi, Giorgio Almirante. Ad Alcamo Marina si fermano per delle incombenze, trovano i morti e avvertono i carabinieri di Alcamo. Allora non c’era l’autostrada tra Trapani e Palermo, il passaggio per Alcamo Marina era obbligato nelle due direzioni, davanti la casermetta, oggi oramai chiusa, passava la statale.

In un mese i carabinieri del capitano Russo risolvono il caso. Viene cancellata l’ipotesi terroristica, poche ore dopo la scoperta dei carabinieri ammazzati viene diffuso un documento di rivendicazione da parte delle Brigate Rosse, nel giro di qualche ora altro volantino, le “vere” Brigate Rosse dicono che con la morte dei due carabinieri, “per i quali non avrebbero comunque versato lacrime”, non c’entrano nulla. Ad Alcamo nel frattempo è arrivata una squadra di carabinieri antiterrorismo. Sono loro gli autori della svolta. A uccidere i due carabinieri è stata una banda di balordi. Dapprima vengono fermati Vincenzo Vesco, una sorta di anarchico alcamese, questi confessa e fa i nomi dei complici, Gaetano Santangelo, Vincenzo Ferrantelli, minorenni, Giuseppe Gulotta e Giovanni Mandalà. Vesco si uccide durante il processo di primo grado, si ammazza in cella, impiccandosi, ci riesce sebbene sia monco di una mano. Gli altri davanti ai giudici gridano la loro innocenza, ci hanno estorto le confessioni dicono. Non vengono creduti e però l’iter processuale è difficile, se per giungere a sentenze definitive bisognerà vedere lo svolgimento di ben nove dibattimenti. L’ultimo dei quali si chiude con le condanne, nel frattempo è morto anche Mandalà, Ferrantelli e Santangelo sono fuggiti in Brasile da dove l’Italia prova a farli estradare ma non ci riesce, l’unico a finire in cella è Giuseppe Gulotta, sfortuna vuole che nel 1976 è da poco entrata in vigore la nuova legge sulla maggiore età, passata a 18 anni, lui li ha appena compiuti, pensava di andare a fare il finanziere, si vede invece infliggere l’ergastolo e andare in un carcere della Toscana. Col tempo Gulotta per la buona condotta ottiene la semi libertà, trova un lavoro, si sposa, ma di quella strage continua a dire di non sapere nulla.

Un giorno il suo racconto trova un riscontro. La confessione sofferta di un ex brigadiere dell’arma, il napoletano Renato Olino. Prima parla con il giornalista de La Stampa, Francesco La Licata, poi in chat incontra il giornalista trapanese Maurizio Macaluso. Questo scrive diversi reportage su un settimanale locale, la Procura di Trapani apre una indagine, che quando è sul punto quasi di essere archiviata viene stoppata da un magistrato della Direzione Nazionale Antimafia. Saltano fuori i verbali di due pentiti, Leonardo Messina e Peppe Ferro, di colpo lo scenario cambia. Non furono balordi ad uccidere quei carabinieri e altri carabinieri hanno fatto di tutto perché sembrasse che fossero loro.  Il viso di Renato Olino un giorno compare sugli schermi Rai, lo scrittore Carlo Lucarelli parlando di mafia ed eversione nera in Sicilia, grazie alla preziosa consulenza dello scrittore e giornalista Francesco La Licata, tira fuori dall’archivio i nastri in bianco e nero della strage della casermetta di Alcamar (Alcamo Marina). Olino racconta, racconta di quei giovani, presi, portati in una sperduta caserma di campagna, torturati e costretti ad ammettere un crimine che non avevano commesso.

Spunta anche un altro pentito, Vincenzo Calcara, era in carcere quando ci entrò Vesco, ha raccontato che Vesco fu ucciso da mafiosi in carcere per ordine di mafiosi liberi. Calcara ha raccontato che all’epoca era detenuto a San Giuliano ed ebbe ordine dal campobellese (avvocato prestato alla mafia, esperto di narcotraffico) Antonio Messina di lasciare da solo Vesco. «Fu ucciso da un mafioso con la complicità di due guardie carcerarie» ha detto Calcara. Nei verbali di Leonardo Messina si legge. «All’epoca ero detenuto seppi da esponenti della cosca di san Cataldo che amici della famiglia di Alcamo si erano messo nei guai, seppi che era stato programmato un attacco a varie sedi delle istituzioni ubicate in vari Comuni della Sicilia e che poco tempo prima che scattasse il piano era arrivato il contro ordine, bisognava soprassedere, ma la notizia ad Alcamo non era arrivata e perciò la casermetta era stata assaltata lo stesso». E l’alcamese Peppe Ferro: «Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati…erano solamente delle vittime…pensavamo che la strage era opera di servizi deviati e mafia».
 
 
Ce ne è di carta “bollata” per fare riaprire il caso. E questo accade. La Procura di Trapani riapre il fascicolo sulla strage di Alcamo Marina e ne apre un altro per le torture subite da Gulotta e compagni. Olino fa i nomi e marescialli dei carabinieri finiscono sotto inchiesta per le torture e le confessioni estorte. Finiscono sotto intercettazione e in poche ore salta fuori la verità. Dopo la notifica degli avvisi di garanzia, si sentono i loro familiari commentare l’accaduto, e la Procura di Trapani (indagini coordinate dal pm Andrea Tarondo) apprende così che quello che accade nella sperduta caserma di Sirignano, nelle campagne tra Alcamo e Camporeale, era addirittura a conoscenza dei familiari dei carabinieri che fecero quegli interrogatori, facendo bere litri e litri di acqua e sale a quegli sventurati, o stimolando gli organi sessuali con le scariche elettriche dei telefoni da campo, ottennero le confessioni per chiudere, in fretta, quelle indagini sulla morte di Apuzzo e Falcetta.  Sentiti in Procura a Trapani i carabinieri finiti sotto inchiesta si sono avvalsi della facoltà  di non rispondere. Da rischiare oramai avevano ben poco, i reati a loro contestati nel momento in cui sono st
ati scritti nel registro degli indagati erano da tempo oramai in prescrizione. Il silenzio la migliore cosa dunque per Elio Di Bona, 81 anni, Giuseppe Scibilia, 70, Giovanni Provenzano 83, Fiorino Pignatella 63. Facevano tutti parte di una squadra comandata da quello che poi diventò il colonnello Giuseppe Russo, l’ufficiale dei carabinieri che indagando sugli appalti gestiti dalla mafia nel palermitano fu ucciso a Ficuzza, nel corleonese, dai sicari di Cosa Nostra, il 20 agosto del 1977.  
 
Anche Olino arriva un giorno in Procura. Raccontò: «Non indagavamo su esponenti della criminalità, ma direttamente nell’ambito politico degli appartenenti alla sinistra extraparlamentare, andammo anche a perquisire a Cinisi la casa di Peppino Impastato». Fino a quando non arrivò il fermo di Vesco, trovato in possesso di armi riconducibili alla strage. Olino ha confermato che da quel momento in poi ha cominciato a nutrire dubbi sull’azione investigativa che veniva condotta dai suoi colleghi, per poi arrivare ad assistere alle torture.
 
  «I quattro furono costretti a parlare facendo bere loro acqua e sale, o provocando scosse elettriche ai genitali, oppure fingendo finte esecuzioni, ho protestato per quei comportamenti ma non cambiarono linea di comportamento i miei colleghi ed allora mi allontanai dalla stanza». «Erano quattro ragazzini, Gulotta giovanissimo, aveva 18 anni, sembrava un pulcino bagnato». A fine del 1976 Olino lasciò l’Arma. «Ero entrato animato dai migliori intenti di servire lo Stato, andai via nauseato anche per quello che aveva visto ad Alcamo». Nel tempo ha detto di avere tentato di raccontare che i condannati per la strage non c’entravano nulla. «Mi rivolsi ad un magistrato di Parma e ad un deputato radicale, chiesi di vedere anche un generale, ma il suo aiutante di campo mi disse che non valeva la pena dire più queste cose». Vesco fu il primo ad essere fermato, «fu picchiato e seviziato e costretto a confessare, a fare i nomi dei complici, sdraiato su due casse con le mani ed i piedi legati, ad ogni diniego, giù acqua e sale». Olino ha anche parlato della morte di Giuseppe Tarantola, 25 anni, alcamese. Morì nel febbraio del 1976 durante una sparatoria con i carabinieri. Si disse che era armato, che voleva uccidere i militari, che era pronto a compiere una strage.  Secondo Renato Olino, però, si trattò di una messinscena per coprire le responsabilità  del carabiniere che aveva sparato. Si disse che Giuseppe Tarantola era armato, «ma in realtà non lo era – ha detto Olino – fui io a collocare la pistola dopo la sparatoria su ordine di un ufficiale, prima dell’arrivo del magistrato».
 
Messinscena. Sceneggiate. Depistaggi. Confessioni estorte. Il 13 febbraio 2012 la Corte di Assise di Reggio Calabria nel processo di revisione ha cancellato la condanna all’ergastolo per Giuseppe Gulotta. Restituendogli l’incensuratezza. Ma non quei 36 anni trascorsi tra accuse, veleni, torture, celle di carcere. Una vita che chissà per quali oscure trame quei carabinieri che indagavano decisero che non gli doveva più appartenere. Oggi a 54 anni Giuseppe Gulotta non potrà più recuperare tutto ciò che gli è stato tolto. “Ho vissuto come con un macigno addosso, un macigno che con la sentenza dei giudici di Reggio Calabria è caduto via di colpo con il rumore e con le conseguenze tipiche di una frana”. «Mi sono commosso quando ho riproposto il film del mio arresto. Io che non capivo perchè mi mettevano le manette, io che venivo picchiato per confessare quello che non avevo fatto. Mi sono commosso quando ho ricordato la sentenza definitiva, coi carabinieri di Certaldo che mi sono venuti a prendere a casa. Piangevano pure loro, perchè mi conoscevano e sapevano che non avrei mai potuto commettere quei crimini. Piangevano, quando hanno dovuto strapparmi dal collo il mio bambino, che allora aveva un anno e mezzo». “Una sentenza – commenta l’avvocato Pardo Cellini che lo ha assistito con l’alcamese Saro Lauria  – che gli ha fatto recuperare briciole di una vita”.

Perché in quel febbraio del 1976 accadde tutto questo? Perché un mese prima i carabinieri Falcetta e Apuzzo furono barbaramente ammazzati. La Procura di Trapani una pista la sta battendo. C’entra Gladio. E c’è un’altra gola profonda. Un investigatore che conosce bene gli altarini alcamesi, che sapeva dove la mafia negli anni ’90 custodiva delle armi, e che quelle armi erano tenute da carabinieri, e che quella polveriera, dentro un seminterrato di una villa, nella disponibilità dei carabinieri La Colla (che faceva da scorta al ministro per i Beni Culturali, la senatrice alcamese Bono Parrino) e Bertotto (che patteggiarono solo per l’unica accusa loro mossa, la detenzione illegale) era fatti di armi e munizioni tipiche delle polveriere di Gladio. Secondo una ricostruzione i due carabinieri uccisi quel giorno di gennaio del 1976 avevano bloccato sulla strada di Alcamo Marina un furgone che non dovevano fermare, a bordo ci sarebbero state delle armi, e una “pattuglia” di Gladio. Loro non sapevano e non potevano sapere, e non dovevano soprattutto scrivere nulla, quando ci provarono a farlo, pensando di avere messo le mani su un commercio clandestino di armi, vennero fatti fuori dentro la loro stessa caserma, poi fu inscenata la strage, la porta d’ingresso con la serratura distrutta dalla fiamma ossidrica, i due carabinieri morti come se sorpresi nella notte, nei loro letti a dormire. Gladio allora era super segreta, sarebbe stata svelata moltissimi anni dopo, e quando questo avvenne si raccontò che a Trapani la cellula di Gladio si era installata solo sul finire degli anni ’80, e invece la presenza sarebbe da collocare a molti anni prima, proprio a quegli anni ’70, quando Stato e Mafia si incontravano nelle zone grigie del paese, dove si nascondevano anche uomini dei servizi deviati e della massoneria. Le rivelazioni della gola profonda non finirono lì. Furono indicati punti di incontro, di scambio, luoghi da dove potevano passare, volando, aerei senza che fossero visti, nelle campagne di Calatubo di Alcamo fu trovata anche un corpo senza testa, si dice un agente di servizi stranieri venuto a morire in provincia di Trapani.

La presenza di Gladio a Trapani è certificata nei primi anni ’90, il centro “Scorpione”, in ultimo affidato alla guida di un maresciallo del Sismi, Vincenzo Li Causi, morto durante uno strano conflitto a fuoco nel novembre 1993 in Somalia.  C’è un rapporto del dicembre 1976 dell’allora capo della Squadra Mobile di Trapani Giuseppe Peri mandato a diverse Procura d’Italia ma rimasto “non trattato”. Il vice questore Peri aveva raccolto elementi di contatti tra la mafia e settori dell’eversione di destra a proposito della strage della casermetta, e dei sequestri degli imprenditori e possidenti Campisi e Corleo. La traccia porta anche a possibili campi di addestramento di neo fascisti alle pendici della montagna di Erice. La pista è quella che negli anni a seguire è quella che vede possibili contatti tra esponenti del terrorismo di destra e uomini della mafia: il quadro emerso nelle riaperte indagini della Procura di Trapani su quello che accadde in quel 26 gennaio del 1976 è quello di un traffico di armi «compiuto da settori istituzionali deviati» (il virgolettato appartiene ad una carta della Procura di Trapani).

La storia non si ferma qui. C’è un investigatore che ha indagato su questi traffici di armi all’ombra di «Gladio» che oggi combatte con un tumore. Lui ha raccontato che un giorno si trovò due strane «barre» tra le mani in un nascondiglio trovato sempre nell’alcamese dove quando ci tornò con i colleghi non c’era più nulla.  Si negano continuamente, e invece ecco che spuntano sempre i misteri e le deviazioni, mischiati alla storia di una Sicilia che non è possibile leggere in modo chiaro, per questi gialli irrisolti, per delle pagine se scritte sono state fatte sparire,
o inghiottite negli archivi del «segreto di Stato», come è accaduto per la storia del bandito Giuliano (forse primo vero esempio di accordo tra mafia e settori dello Stato). Ci sono le commistioni che accompagnano la Sicilia da sempre, da quando Garibaldi sbarcò a Marsala e cercò subito i «picciotti» per sbarazzarsi dei Borboni, e la stessa cosa fecero gli americani che per occuparci fecero accordi con i «mammasantissima» di Cosa Nostra degli States e poi fecero ancora più potenti i mafiosi consegnando loro le città, continuando un rapporto fino ai giorni nostri se è vero come è vero che il super latitante Matteo Messina Denaro cercò sino agli anni ’90 aiuto negli Usa, attraverso i «re» del narcotraffico, come Rosario Naimo,  per far diventare la Sicilia stato americano.   In mezzo ci sono anche le storie dei tentativi di golpe, dei mafiosi che dovevano essere alleati della destra eversiva, di principi e generali, ma non se  ne fece nulla perchè qualcuno a Roma dei capi del golpe chiese i nomi di chi avrebbe fatto parte dell’esercito dei mafiosi che avrebbero partecipato al colpo di stato del principe Borghese. In questa «pentola» ogni tanto ci sono episodi che emergono, che chiedono, impongono, di essere riletti. Uno di questi è quello della strage della casermetta dei Carabinieri di Alcamo Marina. Strategia della tensione si dirà anche. Alcamo Marina è stato altro, ma la strategia della tensione passava anche pochi metri più sopra, per il corso principale di Alcamo, quello dove i Rimi, potenti mafiosi, si affacciavano dal balcone ed era un sventolare di coppole alzate al cielo in segno di saluto. La mafia fece parte di quel piano di eversione, dove comparve pure la figura di un principe «nero», Junio Valerio Borghese che chiamò i mafiosi per un golpe rimasto tentato. E c’erano anche i Rimi. Nei giorni dell’eccidio di Alcamo Marina ad Alcamo accadde anche altro. Vennero dapprima uccisi un sindacalista socialista, Antonio Piscitello e poi il democristiano Francesco Guarrasi; la notte dell’omicidio Piscitello, in una strada di Alcamo furono trovati anche 14 candelotti di dinamite che non esplosero per caso. Per gli omicidi Piscitello e Guarrasi nel 1977 la polizia avrebbe arrestato tre personaggi che diventeranno famosi anche per altro, Armando Bonanno, Giacomo Gambino e Giovanni Leone che nel giro di qualche anno si sarebbe scoperto essere uomini d’onore, legati a quelle cosche invischiate in delitti ancora più gravi. Leone si trovò coinvolto nel sequestro dell’esattore Luigi Corleo, imparentato con i Salvo di Salemi, i potenti esattori, rapito e mai restituito alla sua famiglia. La banda Vannutelli si scoprì essere bene in contatto con ambienti della destra eversiva. E ancora si torna al rapporto Peri del 2 dicembre 1976.

Oggi è stata consegnata la certezza che l’allora diciottenne Giuseppe Gulotta e gli altri condannati per la strage di Alcamo con la strage avevano ben ragione di dire che non c’entrano nulla. E come accade per tutte le cose siciliane all’indomani della sentenza è lungo l’elenco delle persone che dicono che sapevano che doveva andare a finire in questo modo. In Sicilia tanti sanno ma parlano quando oramai le loro parole non possono far danno. A Trapani la regola non è diversa. Anzi forse proprio qui tra le stradine del Belice, quelle che Bernardo Provenzano ogni giorno percorreva per andare a Castelevtrano da Corleone per incontrarsi con don Ciccio Messina Denaro e il giovane Matteo che stava vicino a loro apprendendo i segni della vecchia mafia per poi imparare a creare la nuova Cosa Nostra.

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