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Finanzieri, giudici, professionisti e politici nella rete della ‘ndrangheta

Di Gianluca Ursini il . Calabria

Ha denunciato “la grave carenza di mezzi e personale giudiziario” e soprattutto un dato inquietante: “in media, nella provincia di Reggio Calabria, abbiamo registrato in paesi con una media di 10mila fino a 15mila abitanti (il pensiero corre subito a Rosarno, vicino Gioja Tauro), anche 400 e oltre affiliati diretti ai clan di ‘ndrangheta”. Questa durissima relazione è quanto riportato dal procuratore capo, prossimo al trasferimento a capo della Procura della Capitale, dell’antimafia reggina, Giuseppe Pignatone, in apertura dell’anno giudiziario nel distretto di Corte d’Appello dello Stretto. Non c’è quindi da stupirsi se gli ultimi due anni di indagini del procuratore capo Pignatone, del suo vice Michele Prestipino e dei pm Colamonici e Giuseppe Lombardo, abbiano svelato connivenze, complicità con i mafiosi e trame occulte in quasi ogni ganglio della vita pubblica e amministrativa in riva allo Stretto: oltre 6 finanzieri arrestati, sei giudici inquisiti (2 sotto arresto), tre poliziotti sotto indagine, un capitano dei Carabinieri e 4 sottufficiali e semplici agenti allontanati o destituiti dal servizio; e in più manager pubblici,  commercialisti e avvocati a iosa, al servizio delle ‘ndrine, per infiltrare i pubblici appalti, per ottenere notizie riservate sui procedimenti giudiziari in corso, per avere potere in Consiglio comunale e negli uffici dell’Urbanistica e dei Lavori pubblici.

E non poteva mancare nemmeno un prete, don Nuccio Cannizzaro, al momento sotto indagine per aver mentito in un processo, quello intentato dal fondatore dell’antiracket “Reggio Libera Reggio” Tiberio Bentivoglio contro i boss del rione Condera e Pietrastorta. Don Cannizzaro, tuttora cerimoniere dell’arcivescovo e cappellano dei Vigili urbani, disse il falso sotto giuramento nel processo “Testamento” (2009, istruito dal pm Lombardo), per coprire le responsabilità della cosca Crucitti, che voleva Bentivoglio morto perché si ribellava al pizzo.

Non c’è quindi da stupirsi dell’arrivo in riva allo Stretto a Palazzo san Giorgio, sede comunale reggina,  dei tre commissari inviati dal ministro dell’Interno Cancellieri, per stabilire se vi sia stata negli ultimi mesi di vita amministrativa, infiltrazione mafiosa nell’Ente pubblico. Su tre funzionari pubblici quindi un compito da far tremare i polsi: potrebbero essere i primi in Italia a decretare il commissariamento tra 6 mesi e in capo ad eventuali altri 12 mesi lo scioglimento per infiltrazioni mafiose del primo capoluogo di provincia, del primo Comune sopra i 60 mila abitanti, caso mai verificatosi in Italia dal varo della legislazione sull’inquinamento mafioso degli enti amministrativi. Si tratta del capitano Michele Donega della Guardia di Finanza, dalla dirigente di seconda fascia Teresa Pace e del viceprefetto Valerio Valenti, che in passato ha rivestito cariche delicate, collaborando a Palazzo Madama alla commissione Affari Costituzionali sotto la guida del senatore Antonio D’Ali del trapanese, allora sottosegretario Interni nel governo Berlusconi II, e sul quale sono in via di svolgimento indagini per contiguità con imprenditori legati al superboss latitante Matteo Messina Denaro.

Le vicende che hanno portato alle interpellanze parlamentari della senatrice Fli Angela Napoli e della schiera compatta dei deputati Democratici Calabresi, da Rosa Villecco Calipari, a Marco Minniti a M.G. Laganà, vedova Fortugno, sono stati più volte riportati da Libera Informazione, e sono ricalcati nella informativa con la quale dopo l’Epifania il prefetto di Reggio Luigi Varratta, informava la ministro Cancellieri della sua intenzione di richiedere l’accesso agli atti amministrativi del comune reggino da parte di una commissione d’Inchiesta. “La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’arresto di Pino Plutino, consigliere comunale PdL da tre consiliature”, confida a Libera l’on Marco Minniti, autore di ben tre interrogazioni parlamentari sul caso Reggio, due per il buco in bilancio occultato dai revisori di conti del Comune, per oltre 170 milioni di euro nei soli esercizi dal 2008 al 2010, e l’ultima per i casi che hanno fatto sospettare infiltrazioni mafiose. Va ricordato come sul buco di Bilancio, che ha fatto crollare il mito del cosiddetto “modello Reggio”, esiste tutt’altro procedimento ministeriale: una relazione degli ispettori delle Finanze, depositato il 19 ottobre scorso, e un parallelo dossier aperto dalla Procura reggina per falso in bilancio, falso in atto pubblico, peculato e abuso d’ufficio. Due pesanti macigni sulla reputazione delle due giunte reggine a guida Giuseppe Scopelliti, ora diventato Governatore della Calabria.

Come spiegato dai parlamentari che hanno portato il “caso Reggio” alla riunione della Commissione Affari Costituzionali della Camera, le infiltrazioni mafiose sono temute soprattutto per tre filoni: l’arresto di Plutino il 19 dicembre, a seguito dell’inchiesta “Alta Tensione” del pm Colamonici sul sottoclan Borghetto Zindato Caridi, affiliato ai più potente famiglia Libri del quartiere Cannavò, che avevano nel politico “diretta espressione del clan in Consiglio comunale”. Con pesanti dubbi di distorsione delle elezioni comunali: il clan nei suoi quartieri Modena, Ciccarello e San Giorgio non permetteva nemmeno di affiggere manifesti che non fossero dei candidati Pdl o “Lista Scopelliti”.

Nel novembre 2010, nella prima tranche dell’indagine “Alta Tensione”, il pm Colamonici aveva scovato un commercialista colluso con i Caridi Zindato, Carmelo Gattuso, che era riuscito ad infiltrarsi nei cantieri di ricostruzione dell’Aquila, attraverso una società di comodo, Tesi Srl, consociata con un imprenditore aquilano, Stefano Biasini, che produceva in vece dei Borghetto Zindato i certificati antimafia. E sempre i commercialisti sono il secondo cardine delle indagini sul Comune di Reggio; Gianni Zumbo, già in carcere dal giugno 2010 come “talpa” dei boss Ficara di Pellaro e dei potentissimi Pelle di San Luca (che svolgeva anche doppio gioco per i servizi segreti militari) con il genero, sempre commercialista Roberto Emo, e le loro consorti, aveva messo su un sistema di scatole cinesi al servizio dei boss Tegano. I migliori alleati della “Mamma”, il clan che comanda a Reggio, i De Stefano di Archi.

Attraverso la società  ReCim, che controllava parte della “Gestione servizi srl”,  i Tegano avevano affidato a un manager insospettabile, Pino Rechichi, la guida della società partecipata dal comune Multiservizi, che gestisce il manto stradale, i bus scolastici, la manutenzione ordinaria, il verde pubblico, le piscine comunali. Una grossa società che il compianto sindaco Italo Falcomatà aveva pensato a fine anni ‘90 per copiare le coop comunali dell’Emilia Rossa, e che nei primi anni di vita aveva visto anche società del gruppo Fiat nel management. Ma con l’arrivo della Giunta Scopelliti, la gestione era passata di mano, e da Fiat InGest servizi territoriali erano arrivate le società di Rechichi, in realtà accusato di essere prestanome dei Tegano. Rechichi è in cella dal giugno 2011 a seguito de l’indagine ‘Archi’, e in novembre l’indagine ‘Astrea’ del pm Lombardo ha definitivamente fugato ogni dubbio sulle infiltrazioni mafiose, anche nella municipalizzata che curava la gestione rifiuti, la Leonia Spa. Infine il superpentito Roberto Moio, genero del boss Gianni Tegano, ha deposto in aula in ottobre confermando i dubbi su ‘Multiservizi’ e ‘Leonia’, e indicando anche a capo della Cooperativa “Fata Morgana”, attiva nel riciclaggio dei materiali di scarto, uomini delle cosche Imerti di Fiumara, con i sottopancia Zito e Bertuca di Villa S. Giov
anni.

Non c’è da stupirsi quindi se il marcio si annidava anche nei corridoi dei Palazzi di Giustizia, come svelato dal blitz tra Milano e Reggio del 30 novembre passato, quando in manette finirono il consigliere regionale cosentino Morelli, un ufficiale della Guardia di Finanza e ben due magistrati: Giancarlo Giusti, già trasferito in Palmi perché molto discusso e tra la sorpresa di tutti, anche Vincenzo Giglio, a capo della sezione misure cautelari del tribunale. Membro di Magistratura Democratica, Giglio aveva anche firmato appelli antimafia per non rimettere all’asta pubblica i beni confiscati ai mafiosi. Ma, secondo quanto riscontrato da Pignatone, Prestipino e dal pm Lombardo, Giusti e Giglio incontravano i prestanome della famiglia Lampada (30 anni or sono macellai in quella Archi, che è la Scampia della ‘ndrangheta, ora multimilionari nel settore bar e discoteche a Milano) per fornire loro informazioni in anteprima sulle inchieste in corso. Non c’è da stupirsi se i Ros reggini, nella inchiesta ‘Reale Ippocrate’, quarta tranche delle indagini ‘Reale’ sulla cosca Pelle ‘gambazza’ di San Luca, abbiano scovato pischiatri condiscendenti a far fingere pazzi il boss Giuseppe Pelle, per fargli ottenere il regime degli arresti domiciliari.

Il principale architetto delle finte cartelle di depressione e schizofrenia era lo psichiatra Francesco Moro, arrestato due settimane fa mentre era in servizio al 118 degli ospedali Riuniti dello Stretto; con lui in manette anche l’avvocato Francesco Cornicello, cosentino, già sindaco Pdl di un piccolo paesino della Sila e lo pischiatra Francesco Quartucci. Sequestrata anche in provincia di Cosenza la clinica ‘’Villa Oleandri’’ di quest’ultimo, dove i finti referti venivano confezionati. “Non vi preoccupate che facciamo nu film bello e pulito”, rassicurava lo psichiatra Moro il boss Pelle al telefono, per ripassare gli step della pantomima con la quale il ‘Sanlucoto’ doveva fingersi depresso e ottenere il referto dal 118. Ma forse nu film bellu pulitu una messinscena, è quella portata avanti da decine di colletti bianchi nell’ultimo decennio in riva allo Stretto.

L’unico rammarico è che Pignatone, Prestipino, il colonnello Stefano Russo dei Ros, il capo della Mobile Renato Cortese e i pm agguerriti già menzionati, tra tutti Colamonici e Lombardo, non possano andare avanti ancora a scoprire il marcio in altri uffici prestigiosi, come la sezione Esecuzioni Immobiliari del tribunale di Reggio, che a detta del pentito Carlo Mesiano da anni smista appartamenti e immobili da esecuzioni fallimentari e pignoramenti, per destinarli ai soliti volti noti e legati a questo sottobosco affaristico mafioso, a quattro soldi. Come anticipato, l’esperienza  calabrese del Procuratore Pignatone  e del fido Prestipino, si interrompe a marzo, destinazione Roma. La Mobile dovrà rinunciare entro quella data alla direzione del dottor Cortese, l’uomo che arrestò Bnnu Provenzano a Palermo; quello che tutti si augurano è che i rimpiazzi siano all’altezza.

Nelle redazioni dei giornali si fa strada una speranza: che arrivi sullo Stretto “Ilda la Rossa”, colei che da Milano, in coordinamento con Reggio, ha disposto gli oltre 320 arresti del luglio 2010 e tutte le misure clamorose nei confronti di professionisti collusi, negli ultimi mesi. Purtroppo, pare che la giudice Boccassini non voglia muoversi dalle rive del Lambro per ammirare le coste dello Stretto dalle finestre del CeDir, il palazzo della Giustizia reggino.

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