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Processo Garofalo, in aula ascoltato un altro teste

Di Marika Demaria il . Calabria, Lombardia

«Ho incontrato Lea (Garofalo, n.d.a.) nei primi giorni del 2005, lei stessa mi disse che era nel programma di protezione, che se non me l’avesse detto sarebbe stato meglio». Così, a denti stretti, Antonio Garofalo commenta la confessione che le fece la cugina di sua moglie, in occasione di un loro incontro nel 2005 a Fabriano, e che ieri, lunedì 16, ha restituito alla prima Corte d’Assise del Tribunale di Milano, dove si stanno svolgendo le udienze del processo Lea Garofalo. In maniera confusa il teste ha raccontato di aver incontrato due volte la donna scomparsa la notte tra il 24 e il 25 novembre 2009, che la prima volta avevano avuto un colloquio «normale», mentre nella seconda occasione «Lea era apparsa spaventata, si era messa a piangere, aveva paura che si venisse a sapere dei nostri incontri. Allora io le consigliai di cambiare zona, di non vederci più. Io non ero preoccupato per me, ma dell’incontro non ne parlai nemmeno con mia moglie».

Una dichiarazione diametralmente opposta a quella che Antonio Garofalo rese ai Carabinieri, ai quali raccontò che aveva riferito a sua moglie degli incontri avuti con Lea Garofalo, durante i quali si era anche parlato della figlia Denise. Ieri in aula il teste ha raccontato di aver incontrato a Petilia Policastro, frazione Pagliarelle, Massimo Cosco, fratello minore di Carlo Cosco, il quale gli disse che «era stato a Perugia, dove adesso io lavoro come autotrasportatore, per un giro turistico». Il pm Marcello Tatangelo gli ha però fatto notare che ai Carabinieri aveva dichiarato: «A Pagliarelle ero stato affiancato da Cosco Massimo che mi disse che loro erano venuti a Perugia perché sapevano che c’era Lea».

Una versione che trova riscontro in una lettera, datata 17 febbraio 2005, a firma proprio di Lea Garofalo, indirizzata alla sede della Commissione centrale del programma di protezione, nella quale la donna scrive “Ho avuto un incontro con Antonio, a Petilia aveva visto il fratello minore di Carlo Cosco, loro sapevano dov’ero tramite un rappresentante delle forze dell’ordine”. Rispondendo alle domande dell’avvocato Daniele Sussman Steinberg, Antonio Garofalo ha contestato il contenuto della lettera, asserendo di non aver mai detto quelle frasi e aggiungendo che «tutti in paese sapevano che Lea era al nord e si era rifatta una vita, ma nessuno aveva criticato questa scelta di vita. A me mia cugina disse che aveva paura che il suo compagno Carlo Cosco la trovasse non perché temeva di poter essere uccisa, ma perché non voleva che lui vedesse la figlia Denise».

Su quest’ultima si sono concentrate le dichiarazioni di Daniele Costanzo, cugino dei fratelli Cosco, il quale non sapeva però dell’arresto di Carlo Cosco, così come ha appreso dai giornali della scomparsa di Lea Garofalo. Costanzo ha reso noto di aver accompagnato la ragazza presso il carcere di Lanciano per un colloquio con il padre, «la vedevo tranquilla, non mi disse che era stata costretta a tornare in Calabria da qualcuno ma che c’era tornata di sua sponte, infatti lavorava anche nella pizzeria dei parenti e per i suoi 18 anni (festeggiati il 4 dicembre 2009, n.d.a.) le avevano organizzato una grande festa, alla quale ho accompagnato anche mia figlia. Prima che Carlo fosse arrestato, mi aveva detto che voleva riavvicinarsi alla figlia; non mi aveva parlato dei rapporti tra lui e Lea Garofalo, mentre so che i fratelli Giuseppe e Vito Cosco non si parlano tra loro».

Il teste Gaetano Crivaro, con un procedimento in corso per favoreggiamento proprio dei fratelli Cosco (agito attraverso le dichiarazioni rese ai Carabinieri), si è avvalso della facoltà di non rispondere. Il suo nome era emerso nel corso della precedente deposizione – la prima della giornata – resa da Giuseppe Marino, il quale sommariamente ha raccontato di aver consegnato le chiavi del magazzino di Crivaro a due persone, in una sera di fine novembre del 2009, identificate in Vito Cosco e Carmine Venturino (attraverso gli identikit mostrati in aula). «Il ragazzo si è presentato come il proprietario della Fiat Coupé parcheggiata nel magazzino di Crivaro, è entrato nel magazzino di sera, non capivo cosa potessero fare al buio».

Secondo lo stesso imputato Venturino, che nel corso dell’udienza ha chiesto di prendere la parola, egli doveva svolgere un lavoro di meccanica, per la precisione «dovevo smontare i bulloni dei collettori della marmitta, e non è un lavoro facile visto che non sono del mestiere». In merito è arrivata la dichiarazione del consulente tecnico Franco Comini: «Nel marzo 2010 ho avuto l’incarico di visionare l’auto in questione. Il radiatore era stato smontato e messo vicino al veicolo, che di fatto era poggiato per terra e dunque inamovibile, così come il condensatore. Per effettuare queste modifiche non si impiega più di un’ora, un po’ di più se bisogna forzare il cofano; occorrono solamente un cacciavite ed una chiave da “10”».

La prossima udienza si svolgerà venerdì 20 gennaio.

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