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Rosarno dai campi e dalle banchine

Di Tiziana Barillà il . Calabria

Ricordare sì, reagire anche. È questo il senso del secondo anniversario della rivolta di Rosarno, avvenuta il 7 gennaio del 2010. Perché, dopo due anni, la situazione non è migliorata: in assenza di politiche agricole, le condizioni dei braccianti non accennano a migliorare.

Due anni dopo
«Cari fratelli e sorelle rosarnesi, siamo lavoratori africani di tante nazionalità», scrivono i braccianti stranieri in una lettera rivolta alla città. «Malgrado la triste situazione che si è verificata due anni fa, che ha fatto male a tutti, ci troviamo di nuovo insieme, nella vostra città e sulla vostra terra. Quella situazione triste ce la portiamo nel nostro cuore, così come voi nel vostro». Un messaggio che tutti i rosarnesi hanno potuto leggere, dopo che l’Amministrazione comunale ha deciso di affiggere manifesti sui muri della cittadina calabrese. È stato un modo «per facilitare un processo di integrazione che diventa sempre più indispensabile», spiega a left il sindaco Elisabetta Tripodi. Ma una lettera non può bastare. «Se non prima si mette fine a questa emergenza umanitaria ed abitativa », tuona Giuseppe Pugliese dell’associazione Africalabria, «difficilmente si potrà parlare di convivenza in questi territori». Rosarno non è solo sinonimo di ’ndrangheta e conflitti etnici. Negli ultimi mesi, la cittadina calabrese è diventata un laboratorio d’esperienze di lotta. Per la prima volta, braccianti, produttori, portuali di Gioia Tauro e ambientalisti si sono uniti per la «difesa della terra ». Finalmente una classe lavoratrice che inizia a prendere coscienza di sé, in un territorio asfissiato dalla ’ndrangheta e dilaniato dall’assenza di politiche per la crescita.
Eppure, i postumi della rivolta del 2010 si fanno ancora sentire. «C’è molta rabbia. Non tanto rispetto ai migranti, quanto al mondo dell’informazione dell’informazione», prosegue la prima cittadina Elisabetta Tripodi. «Molti ritengono che l’immagine di Rosarno sia stata infangata dal taglio con cui i giornalisti hanno raccontato la rivolta. È innegabile che quei fatti siano successi e che ci sia stato razzismo, ma si è trattato di una minoranza». Una minoranza armata.
Risposte dal basso
E con la crisi economica l’abbandono dei campi diventa sempre più frequente, mentre la grande distribuzione impone ai piccoli produttori prezzi sempre più bassi. «Per rispondere agli interessi dei grandi speculatori, sono nate realtà come Sos Rosarno e la campagna Ingaggiami contro il lavoro nero», spiega Arturo Lavorato di Equosud. «Stiamo provando a offrire un’alternativa praticabile ai piccoli contadini che vogliono convertirsi al biologico perché la soluzione alla crisi non passa attraverso lo sfruttamento di chi è più debole ma dalla solidarietà e dalla cooperazione sociale». L’obiettivo di Equosud è favorire l’emersione dal lavoro nero attraverso l’applicazione di un prezzo equo ai produttori in cambio della regolarizzazione dei braccianti. Una produzione etica che consente di sperimentare un diverso rapporto tra migranti e piccoli proprietari. «Chiediamo che i terreni agricoli rimangano tali e che possano offrire occupazione degna ai lavoratori, immigrati e non, e un reddito ai proprietari », prosegue Lavorato. «Lo chiederemo il 7 gennaio a san Ferdinando (Rc), lo chiederemo dal 13 e 14 gennaio in tante città d’Italia, con la campagna Ingaggiami contro il lavoro nero».
Istituzioni latitanti
«Quest’anno è aumentato il numero dei migranti, ci sono circa mille persone», dice Elisabetta Tripodi. «Abbiamo riaperto il campo di accoglienza il 17 dicembre, un intervento finanziato esclusivamente con le nostre risorse. La Regione Calabria, infatti, ha detto che quest’anno non intende sostenere oneri finanziari». Ma i vecchi container della Protezione civile non bastano a ospitare un numero così alto di lavoratori stagionali. «Abbiamo richiesto altri container ma ancora non sono arrivati», continua il sindaco. «E senza un alloggio, i migranti occupano casolari abbandonati. Col rischio che nelle periferie nascano nuove tensioni». Il Comune, secondo Elisabetta Tripodi, non è in grado di sobbarcarsi tutte le spese. Senza il sostegno di tutti Rosarno non sarà in grado di garantire un’accoglienza adeguata. «Sapevamo che a riflettori spenti il cerino sarebbe rimasto in mano al Comune e così è  stato», denuncia la prima cittadina. «Abbiamo lanciato l’allarme già a novembre, dicendo che i numeri sarebbero aumentati e che da soli non ce l’avremmo potuta fare. La Prefettura reggina ha aperto un tavolo al quale sono state invitate altre amministrazioni pubbliche, ma non basta: serve il sostegno della Protezione civile, regionale e nazionale». Più rosea appare la situazione sul fronte dei progetti a lungo termine. Secondo il sindaco, a settembre si è ottenuto un finanziamento per la costruzione di circa 34 alloggi da 4 unità, che potrebbero dare ospitalità a circa 150 migranti, riutilizzando alcuni beni confiscati alla mafia. E a giorni dovrebbero partire i lavori per il villaggio della solidarietà, la struttura che sorgerà su un bene sequestrato grazie ai fondi del Pon sicurezza assegnati al Comune: circa 1 milione 800mila euro. «La nostra difficoltà è gestire questa stagione e, considerati i lunghi tempi burocratici, anche la prossima probabilmente», conclude Elisabetta Tripodi.
Tutti anelli di una stessa catena
Ma gli sfruttati, nella Piana di Gioia Tauro non sono solo i lavoratori stagionali. I portuali sono a rischio da tempo. «Non bisogna cadere nella trappola della guerra tra ultimi», sostiene Domenico Macrì del Coordinamento portuali Sul (Sindacato unitario dei lavoratori), nonché cassintegrato del Porto di Gioia Tauro. Il Porto, ovvero il più grande terminal per transhipment del Mar Mediterraneo, è gestito dalla Medcenter container terminal (Mct), del gruppo Contship Italia. Traffici in calo ed esuberi a gogò con la società che dichiara una perdita finanziaria di circa un milione di euro al mese. «Dal 2009 ad oggi i licenziamenti hanno colpito circa il 50 per cento dei lavoratori del Porto. In particolare quelli dell’indotto, come Sorgenia e Rfi», dice Domenico Macrì. «Qui, il Porto è come la Fiat a Torino, se perdono il lavoro 1600 persone è una catastrofe per tutto il territorio». Sono circa 1.500 i lavoratori impiegati senza alcuna prospettiva futura. Dalle dichiarazioni della Mct e dagli incontri avvenuti con il ministero dei Trasporti e la Regione Calabria l’unica certezza emersa è l’assenza di prospettive di sviluppo almeno fino al 2015. «Fino a luglio 2012 siamo coperti da una tranche di cassa integrazione straordinaria, ma se non c’è un aumento dei volumi, anche piccolo, non può essere rinnovata e questo vuol dire la possibilità di passare in mobilità. L’azienda ha presentato un piano di risanamento aziendale che non prevede investimenti, ma tagli sul personale e sui mezzi. Quindi andiamo dritti verso la mobilità», sostiene Macrì. Del resto la concessione cinquantennale di Mct, prevede un minimo di 600 lavoratori, per la sopravvivenza dei contributi, perciò un’ulteriore riduzione del personale non comprometterebbe la stessa esistenza del Porto. Per Macrì è necessario «superare il monopolio di Mct sulla banchina, questa è la sola strada per invertire la rotta e superare una crisi dei volumi sempre più nera». «La crisi che colpisce il settore agricolo affonda le sue radici nelle stesse logiche di potere che creano la crisi al porto di Gioia Tauro. Non si può più accettare un sistema governato dalle lobby del Nord che, con il benestare della ’ndrangheta, decidono il destino del nostro territorio. Il 7 gennaio saremo al fianco
dei braccianti africani, lavoratori come noi, per difendere insieme la nostra terra».  
Tratto da left avvenimenti n.01 del 6 gennaio 2012

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