Caso Caravà: lo slogan delle elezioni era “io voto a Ciro”
Il sindaco del Pd, Ciro Caravà, inaugurava l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia e dietro le quinte si scusava con i boss del suo paese, Campobello di Mazara. Mandava messaggi inequivocabili ai capi mafia, per spiegare che erano compiti dai quali non poteva sottrarsi, diceva: “io questo ho dovuto farlo, lo dovevo fare le funzioni”. E i magistrati antimafia di Palermo, quelli che hanno coordinato l’inchiesta dei Carabinieri di Trapani denominata “Campus Belli”, non hanno dubbi, Caravà era un sindaco dalla dalla “doppia faccia” e i mafiosi e i presunti tali intercettati ne avrebbero provato la disponibilità, per esempio, quando c’era da punire una vigile urbano, che aveva fatto una multa che secondo i “mammasantissima” del Paese non avrebbe dovuto fare.
A muoversi nei confronti del sindaco Caravà perché nei confronti di quella vigile facesse sentire il proprio risentimento esercitando la sua autorità, sarebbe stato uno degli 11 arrestati del blitz, Cataldo La Rosa, l’alter ego secondo l’inchiesta del capo mafia di Campobello di Mazara, Nanai Bonafede: “L’ho detto al Sindaco, a Ciro, la deve trasferire. Gli ho detto si deve trasferire quella. Se non la trasferiscono faccio un casino, a questa le faccio rimpiangere il giorno che è nata”.
E secondo le risultanze dell’indagine, Ciro Caravà non doveva solo essere il sindaco di Cosa nostra campobellese, e per i pm della Dda di Palermo lo sarebbe stato nel primo quanto in questo secondo mandato dopo la rielezione dello scorso anno, ma avrebbe dovuto rappresentare la potente consoreteria campobellese, quella più di altre legata al super latitante Matteo Messina Denaro, anche all’Ars dove nel 2008 si candidò sempre in quota Pd, quando aveva oramai associato a se la figura di autorevole sindaco antimafia, sostenendo l’allora candidata governatrice, Anna Finocchiaro. Lo slogan coniato pare dai mafiosi e che girava per Campobello era quello “io voto a Ciro”.
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