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Rosarno, donne e ‘ndrangheta

Di Francesca Chirico il . Calabria

Le prime parole da imputati non le hanno usate per  dichiararsi innocenti. “Vogliamo Di Palma, non quella”.  Dentro le gabbie dell’aula bunker del Tribunale di Palmi gli uomini dei Pesce hanno cambiato il punto di osservazione della realtà, non le idee. Al magistrato donna che sostiene l’accusa – il sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Alessandra Cerreti – non intendono riconoscere legittimità di interlocutore. Ne storpiano il nome – “La Cerutti, la Ceretti” – la indicano come “quella”. Avrebbero voluto che a snocciolare i capi d’imputazione del processo “All Inside”, che minaccia di assestare un colpo devastante alla storica ‘ndrina di Rosarno, si presentasse il collega “maschio” Roberto Di Palma. Per una questione di rispetto. Perché il “nemico”, se è in gamba, lo puoi pure rispettare. Ma una femmina, no, quella è un’altra storia. E invece, tra pm e collegio giudicante interamente al femminile, e la sanguinante spina del fianco di una donna di famiglia diventata grande accusatrice, i Pesce stanno sostenendo il processo del contrappasso.  E’ vero, le tegole piovute nell’ultimo anno e mezzo sulla cosca, tra sequestri milionari, manette ai latitanti, boss spediti al regime detentivo del 41 bis e pioggia di condanne in abbreviato, basterebbero da sole a spiegare il clima pesantissimo nel quale, da luglio, si sta celebrando il procedimento con rito ordinario. Ma la beffa brucia quanto, se non più, dell’offesa. E quelle donne che in aula li accusano (il pm Alessandra Cerreti), li giudicano (presidente Concettina Epifanio, a latere Maria Laura Ciollaro e Antonella Crea) e li “tradiscono” (Giuseppina Pesce e Rosa Ferraro) rappresentano una beffa amarissima.

Da braccianti nelle campagne di contrada Focolì (tra i territori di Rosarno e San Ferdinando) ad imprenditori infiltrati, con i propri camion, nei lavori del porto di Gioia Tauro e dell’autostrada, i Pesce si sono dimostrati capaci, nel corso dei decenni, di diversificare attività ed interessi, spartendosi Rosarno con i Bellocco, federandosi con i Piromalli di Gioia Tauro, partendo alla conquista di Milano e giocando un ruolo pesantissimo nello scenario politico locale. Tanto dinamici nel business, quanto tribali nelle questioni di onore e famiglia.  Un colpo in testa sparato da un fratello e una buca scavata nelle campagne, la soluzione prescritta per le donne che scantonano. Contro Rosa Ferraro che nel 2006 chiede conto del perché l’abbiano inguaiata, intestandole un supermercato, Salvatore Pesce sputa una risposta secca: “Sparisci o ti seppellisco viva in campagna”. Trentacinque anni prima l’avevano risolta così con Annunziata Pesce, fuggita di casa con un carabiniere: sequestrata sul lungomare di Scilla, condotta in campagna, giustiziata e sepolta per mano del fratello e dei cugini. Con Rosa, che dei Pesce è parente acquisita, si preparavano a fare lo stesso, affidando il compito al fratello di lei, giudicato disabile psichico, che però ha distinto l’orrore, si è ribellato e l’ha informata. Rosa è una donna energica di mezza età che di bocconi amari, nella vita, ne ha ingoiati tanti. Ma non trattiene le lacrime pensando che a quella riunione c’era anche suo padre, pronto a fare “la cosa giusta”.  Giuseppina Pesce, invece, sui maschi della famiglia e sul proprio destino non si fa illusioni. “Dovrà essere mio fratello ad amazzarmi. E se solo mio figlio fosse stato più grande sarebbe toccato a lui”. Da un anno collabora con la giustizia, sognando che dei tre figli il maschietto possa dire di voler fare il carabiniere senza essere riempito di botte dagli zii e le due femmine possano studiare e scegliersi liberamente l’uomo da amare. E’ stata lei a restituire alla memoria collettiva la vicenda di Annunziata. E non crede al suicidio dell’amica Maria Concetta Cacciola, testimone di giustizia morta nell’agosto scorso dopo il ritorno a casa: “Cetta con l’acido è stata ammazzata”.

Collegata in videoconferenza con l’aula del Tribunale di Palmi, Giuseppina finora è rimasta ad ascoltare in silenzio. Dalle gabbie, dove sono in attesa di giudizio anche la madre Angela Ferraro e la sorella Marina, nessuno le ha rivolto parola. Facendosi fotografare in catene davanti al Municipio, ci ha pensato invece, la vecchia nonna Giuseppina Buonarrigo, custode del focolare di “famiglia”, a ribadire che le vere donne dei Pesce stanno sempre e comunque con i loro uomini. Fino alla fossa, eventualmente.  

Per approfondimenti: Archivio multimediale Stop’ndrangheta

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