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Beni confiscati, il riutilizzo prima di tutto

Di Aldo Cimmino il . Campania

Formazione e professionalità. Ecco due nuove armi che entrano ufficialmente a far parte dell’arsenale dell’antimafia sociale. Con l’iniziativa “Beni in Comune”, svoltasi lo scorso 25 novembre presso l’Università degli Studi di Napoli, Suor Orsola Benincasa, si è ufficialmente chiuso la prima esperienza di Master, a Napoli, in promozione, valorizzazione e riutilizzo dei beni confiscati alle mafie. Un’esperienza resa possibile grazie al contributo di Fondazione per il Sud e con il partenariato di Libera, Fondazione Polis, Consorzio Sole e Agrorinasce. L’obiettivo è dunque quello di professionalizzare un’esperienza che nasce su base volontaria. Conferire maggiore peso a quelle buone pratiche che garantiscono l’innalzamento dello scontro sociale in fatto di riutilizzo dei patrimoni sottratti alle organizzazioni mafiose. Gli allievi del master, infatti, hanno discusso venerdì scorso le loro tesi di diploma. E non si tratta di semplice lavoro accademico ma di reale progettazione sulle possibili soluzioni dei problemi che maggiormente attanagliano la riconversione dei beni sequestrati e confiscati. Ne è stata la prova l’intervento dell’Assessore al Sicurezza e Beni confiscati del Comune di Napoli, Giuseppe Narducci, che porta alla platea la comunicazione di una delibera della giunta che accoglie il progetto di riutilizzo proposto da un gruppo di ragazzi del master. Il bene in questione è sito in un quartiere della periferia nordorientale del  Comune di Napoli, San Pietro a Patierno, tra i più degradati della città.

Il progetto, nato dal caso studio, vuole un ristorante sociale in quella villa confiscata, sul modello della “Nuova Cucina Organizzata” realizzata dalla Cooperativa Agropoli in provincia di Caserta. Ma non si tratta di un caso isolato. Una seconda tesi di master ha affrontato un caso emblematico che proietta un secondo problema, tipico del riutilizzo sociale. Quello della continuità dell’azione e dunque quello di found raising. Il caso in questione è quello dell’ “Asharam Santa Caterina”, bene confiscato al clan D’Alessandro e oggi casa alloggio per migranti. L’associazione “Casa della Pace e della Nonviolenza”, che gestisce il progetto di riutilizzo sociale, è oggi in difficoltà economiche. Per questo è stato affrontato anche il problema della auto-sostenibilità delle gestioni sociali cercando di strutturare l’azione sociale in forma cooperativistica.

Dunque le parole d’ordine sono riutilizzo e lavoro. È sempre stata questa la frontiera da abbattere, da quando lo Stato è stato costretto a guardare le mafie con il dovere del contrasto e non con l’inerzia della convivenza. Nonostante le stragi mafiose, a partire da quella di Portella delle Ginestre, del maggio 1947, fino a quelle del 1982, lo Stato ci ha messo ben trentacinque anni prima di introdurre nel codice penale il reato di associazione mafiosa. E con quel reato si introducevano, per la prima volta, le misure di prevenzione patrimoniali. Si perché, la mafia, intanto aveva ampiamente dimostrato che il potere, l’onore, il rispetto ormai si identificavano esclusivamente con la consistenza economica dei loro forzieri. Tutto girava, e gira, attorno ad una criminalità economica che pian piano si è trasformata in economia criminale, che oggi inquina i circuiti legali minacciando diritti fondamentali come il lavoro e lo sviluppo della personalità umana. Tutto questo si amplia notevolmente se calato nella difficile realtà dettata dalla crisi economica internazionale. Che di sicuro non incide sul modello dell’impresa mafiosa. Ecco quindi la sfida. Non solo sottrarre i beni ai mafiosi ma puntare in modo prioritario al riutilizzo sociale, in sinergia con tutte quelle istituzioni ed esperienze che dal 1996 si sono formate sulla materia della riconversione dei patrimoni di mafia. “A distanza di cinque, sei anni dalla confisca definitiva – sottolinea Giovanni Russo, magistrato della Direzione Nazionale Antimafia – la gente guarda al riutilizzo sociale del bene, non al fatto che fu confiscato”. Gli fa eco Giandomenico Lepore, procuratore capo della Repubblica di Napoli, sottolineando l’urgenza di riutilizzare i beni sottratti alla malavita organizzata “altrimenti se confischiamo e non riutilizziamo facciamo un favore alla camorra”. Ma l’uso dei beni è una materia complessa per molteplici aspetti. Non soltanto gli ostacoli di ordine sociale. Quelli di certi contesti territoriali nei quali molti si trovano, con i loro comportamenti e con il loro impegno, a dare prova dell’esistenza dello Stato a pochi metri da chi invece è interno alle logiche sopraffattorie. A pochi metri, dunque, dai familiari del proprietario di quella abitazione o terreno confiscato. Insomma, per essere chiari, a pochi metri dalla camorra. La paura, e non solo, di doversi confrontare nei quartieri e nei vicoli dove si annida “il sistema”. Ma anche un cumulo di problemi di carattere economico e amministrativo che non agevolano, certamente, la scelta di assumersi la responsabilità della gestione sociale di un bene confiscato alla camorra. Problemi che sono immediatamente sbattuti sul tavolo dalla direttrice del Consorzio S.o.l.e., un consorzio della Provincia di Napoli che raccoglie decine di comuni al fine di tentare di velocizzare e facilitare l’iter amministrativo del riutilizzo. Sono chiarissime, infatti, le dichiarazioni di Lucia Rea, che mettono in evidenza come si debba combattere contro amministratori locali reticenti o collusi. Poi ci sono le ipoteche delle banche. Di fatto sono macigni che schiacciano qualunque possibilità di riutilizzo sociale. Ipoteche che sono la testimonianza evidente di una mancanza d’etica degli istituti di credito che concedono prestiti e finanziamenti senza alcuna garanzia.

 Del resto a chiederli sono i camorristi. Contro questo tema si scagliano i relatori che, unendosi al grido di allarme che da anni lancia Don Ciotti, chiedono anch’essi la cancellazione delle ipoteche, appellandosi anche al buon senso di quei direttori di banche che le hanno concesse. Del resto quelle ipoteche non potranno mai essere onorate. Un problema che dovranno necessariamente affrontare, a livello centrale, la Banca d’italia e l’ABI.

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