Un collaboratore di giustizia racconta del delitto Rostagno
Ventesima udienza del processo in corso a Trapani per il delitto di Mauro Rostagno, sociologo – giornalista ucciso in Sicilia il 26 settembre del 1988. Dopo alcune udienze dedicate alla perizia balistica, il procedimento a carico dei mafiosi, Vito Mazzara e Vincenzo Virga, oggi si apre con la deposizione del collaboratore di giustizia, Francesco Milazzo. Importanti elementi sono emersi dalla sua testimonianza: dall’arma usata per il delitto, sino al malumore tutto interno a Cosa nostra per gli editoriali e le cronache che Rostagno faceva ogni giorno all tv, Rtc. E infine una considerazione sul movente del delitto, espressa dal collaboratore di giustizia: «Rostagno non è stato ucciso perché parlava di tutti noi – dichiara Milazzo – secondo me, è stato ucciso perché ha toccato qualche nominativo che non doveva toccare». Pubblichiamo a seguire la cronaca in diretta dal tribunale di Trapani.
La prossima udienza sarà il 7 dicembre e verrà sentito un altro collaboratore di giustiza, Vincenzo Sinacori.
13. 29 «Andavamo ad uccidere armati fino ai denti, fucile, mitra e pistole, p 38 – continua il pentito Francesco Milazzo – rispondendo al presidente della Corte di Assise giudice, Angelo Pellino. Pellino chiede come Vito Mazzara rendesse irriconoscibile il fucile che aveva sparato. Lui mi disse – risponde Milazzo – cosa sostituiva ma io oggi non lo ricordo di preciso, che pezzo cambiasse». Dopo le domande della Corte tornano a fare le domande gli avvocati. L’avv. Lanfranca (parte civile della sorella, Carla Rostagno) chiede che Milazzo ricostruisca l’omicidio dell’agente Montalto. Milazzo ricorda che fu ucciso in auto mentre era in auto con la moglie e la figlia. A sparare fu Vito Mazzara, oltre a Montalto nessuno fu ferito. Interviene l’avv. Salvatore Galluffo. Fa l’elenco di una serie di nomi citati da Milazzo durante la sua deposizione. L’elenco dei nomi viene fatto dall’avv. Galluffo per dire che le persone citate da Milazzo sono state assolte. A questo punto l’esame del pentito è terminato. La Corte definisce il calendario delle prossime udienze. L’udienza di oggi è finita e la prossima si terrà il 7 dicembre.
13.00 Milazzo conferma che la città era nelle mani dei Minore, capi mafia di Trapani. Ma questo all’inizio degli anni ’80. Milazzo durante la deposizione si ricorda del delitto di Antonino Barbera, era un folle, era un pacecoto, aveva bruciato anche la macchina al comandante della stazione dei carabinieri di Paceco, era un “frariciumi”, è stato ucciso perchè la mafia si preoccupava di tenere l’oridine a Paceco. L’omicidio di Barbera fu deciso anche da Virga, lui era il mandante noi eravamo contenti di farlo, Barbera disturbava a tutti, era un pericolo generico.
12. 48 La mafia trapanese aveva a disposizione diversi sicari oltre a Mazzara, Barone e Todaro – continua Milazzo. Rispondendo all’avv. Galluffo, il collaboratore di giustizia dice che la famiglia di Trapani aveva a disposizione altri due soggetti. Nessuna domanda su chi fossero. Galluffo chiede ancora se Mariano Agate avesse interessi sul delitto Rostagno. Milazzo risponde dicendo di “non sapere se avesse interessi” ma ha ricordato l’espressione contrariata di Agate quando si parlava di Rostagno. Galluffo, difensore di Vito Mazzara, chiede come facesse Milazzo conosceva le abitudini dell’imputato a caricare le armi, il pentito torna a dire di sapere che era sua abitudine sovraccaricare le cartucce che faceva da se. La parola adesso all’avv. Salvatore Galluffo, altro difensore di Mazzara che chiede se c’erano medici a disposizione della mafia, “ognuno aveva il suo medico, il mio era Novara – risponde Milazzo”. A proposito di Puccio Bulgarella (editore di Rtc) Milazzo dice che come imprenditore era stato “avvicinato” ma poi per un periodo fu “allontanato” ma dice di non sapere il perché. Milazzo dice – anche – di non essere a conoscenza del fatto che fosse l’editore di Rtc. Molto più facile, invece, avvicinare il padre di Puccio Bulgarella.
12.35 Intervengono le difese. Avv Vito Galluffo, difensore del presunto killer, Vito Mazzara. Il collaboratore di giustizia, Francesco Milazzo rammenta che la famiglia di Paceco era potente, lui era soldato, ma non erano i gradi a comandare. E a proposito dei delitti in genere, dice: «la mafia faceva tutto, non si faceva niente se la mafia non lo volesse». Milazzo aggiunge: «le istituzioni ci informavano su cosa accadeva». L’avv. Vito Galluffo chiede spiegazioni sull’affermazione che “Mastrantonio era un fiume in piena”. «Non mi interessava – risponde Milazzo – quello che diceva Mastrantonio, io capivo di più e non era utile parlare con Mastrantonio perchè le sue erano solo “tragedie”». Galluffo chiede sui rapporti con la famiglia mafiosa di Mazara, Milazzo conferma che lui e Vito Parisi erano in stretti rapporti con Mastro Ciccio. «Eravamo vicini ai mazaresi perchè a Trapani c’era disordine, Virga era un capo ma contro di lui, aveva una “spina enorme”».
12.22 Riprende il processo. Intervengono le parti civili, avvocato Elio Esposito (avvocato della Saman) Carmelo Miceli (avvocato di Chicca Roveri e Maddalena Rostagno). Rispondendo all’avv. Miceli, Milazzo ricorda un delitto che si doveva commettere a Milano, contro tale Truglio. Milazzo ricorda che Vincenzo Mas
trantonio fu ucciso perchè era “un fiume in piena” (parlava troppo dei fatti di Cosa nostra, ndr) ma non in stretta connessione con il delitto Rostagno.
trantonio fu ucciso perchè era “un fiume in piena” (parlava troppo dei fatti di Cosa nostra, ndr) ma non in stretta connessione con il delitto Rostagno.
11.55 Il racconto di Milazzo continua con alcuni particolari. Quando Mariano Agate era nervoso e ci sedevamo a tavola mangiava continuamente – dice – mi bastava vedere questo, per capire che era nervoso, ed era nervoso quando vedeva le trasmissioni di Rostagno. Mangiavamo tutti assieme, in quel periodo comandavamo noi dentro il carcere, Milazzo ricorda che a partecipare ai pranzi erano Peppe ferro, Vito Parisi, Salvatore Alcamo. E a pranzo vedevamo i telegiornali di Rostagno o anche la sera … I pm hanno terminato le domande, si decide di andare in pausa.
11.50 Milazzo riferisce che gli incontri a Mazara avvenivano nei locali della calcestruzzi dei fratelli Agate, Mariano e Giovan Battista. Milazzo ricorda di avere sentito parlare di Natale L’Ala (boss di Campobello di Mazara, ucciso dopo tre tentativi andati a vuoto, iscritto alla loggia massonica segreta Iside 2). Non mi interessava sapere chi era e quando a me le cose non mi interessavano me ne uscivo sempre fuori. Non so nulla di Natale L’Ala – risponde Milazzo. Mastrantonio aveva un difetto enorme “che buttava fuori” ma quando capivo cosa voleva dire, lo zittivo, perché spesso era meglio non ascoltarlo per non essere coinvolti. Perché ha deciso di collaborare – chiedono in aula. «Per lasciare liberi i miei familiari, per lasciarli tranquilli, liberi dal fango cui appartenevo io – risponde il collaboratore di giustizia». Milazzo però, ricorda anche che, i suoi familiari lo hanno isolato subito, non hanno voluto sapere nulla né di me né della moglie. Ritorna a fare le domande il pm Paci. Cosa voleva dire Mastrantonio, a suo avviso, quando le disse “hai visto cosa è successo ai picciotti”?. Lui, risponde: «mi voleva dire del delitto Rostagno e che era scoppiato il fucile. Mastrantonio parlava sempre con nominativi di Cosa nostra ma non era giusto che lo facesse». Paci chiede se era la prima volta che l’arma funzionava male. Milazzo dice che «tanti anni fa un altro fucile era scoppiato perché le cartucce erano state troppo caricate, ma non ricordo, dice, quando è successo e come l’ho appreso, ma è successo».
11.40 Quando mi dissero di fare il sopralluogo capii che Rostagno era arrivato alla morte, che era arrivato il tempo di “ascipparici la testa” – continua Milazzo. Rostagno non è stato ucciso perché parlava di tutti noi – dichiara Milazzo – , Rostagno è stato ucciso perché ha toccato qualche nominativo che non doveva toccare, qualche nominativo che apparteneva a Cosa nostra, a Trapani, Paceco, Erice, quel delitto non interessava, quello che interessava al delitto di Rostagno era fuori dalla provincia di Trapani – secondo me, dice Milazzo. Era un delitto di Cosa nostra certamente ma l’interesse ad ucciderlo non era trapanese. La mattina dopo il delitto incontrai Mastrantonio e mi disse “hai visto che è successo ai picciotti”. Io del delitto lo aveva appreso dal telegiornale, poi incontrai Mastrantonio (autista di Vincenzo Virga, ndr). Secondo Milazzo i picciotti erano Mazara, Salvatore Barone e Nino Todaro, tre uomini d’onore di Valderice. Mastrantonio, lavorava all’Enel come operaio, faceva servizio a Trapani. Non faceva lavoro interno, usciva con i furgoni, un giorno mi disse «hai visto cosa è successo ai picciotti che gli è scoppiato il fucile in mano». L’ordine di uccidere Rostagno per forza doveva venire da Francesco Messina Denaro che era il capo della cupola – conclude Milazzo. Vincenzo Mastrantonio era uomo d’onore della famiglia di Trapani, stava sempre vicino a Virga e quest’ultimo si fidava di Mastrantonio al 100 percento. Vincenzo Mastrantonio mi parlò del delitto Rostagno: insieme dovevamo uccidere per ordine di Virga il giudice Giacomelli, dovevamo fare i sopralluoghi, gli appostamenti, però Virga voleva che il delitto doveva essere commesso a Paceco, io invece gli dissi che lo potevamo fare vicino casa del giudice, nella zona di Erice, quando gli dissi così, Virga non mi interpellò più – continua Milazzo. Io i delitti li facevo dove si potevano fare e Virga non mi poteva chiedere di fare l’omicidio fuori dalla sua zona, quello era un discorso”cattivo”. Il delitto Giacomelli fu fatto più vicino a Paceco come voleva Virga, ma a me non dissero nulla – ha detto il pentito. Vincenzo Mastrantonio aveva con me ottimi rapporti, lui però era un fiume in piena non era in condizione di tenere un segreto, era un pericolo “generico”,
11.31 Vito Mazzara, Nino Todaro, Salvatore Barone, ricorda Milazzo – appartenevano alla famiglia mafiosa di Valderice. Il collaboratore di giustizia ricorda di quegli anni, che «i telegiornali di Rostagno li vedevamo sempre perché c’era un malumore enorme per Rostagno. Anche quando si era in carcere». Milazzo parla adesso della famiglia di Mazara, dice che gli appartenenti li conosceva tutti, Vincenzo Sinacori, Giovanni Leone, l’architetto Calcedonio, Salvatore Tumbarello. «Incontravo spesso tutti loro dice, spesso andavo a Mazara, ero più in contatto con i mazaresi che con i trapanesi – continua – con i mazaresi non abbiamo mai parlato di Rostagno, ma c’erano le battute quando lo vedevamo in tv, lo chiamavo cornuto, perché lui “istigava”». Adesso le domande sono poste dal pm Francesco Del Bene che chiede precisazioni sui commenti contro Rostagno. Milazzo risponde: «Rostagno era un farabutto e un cornuto perché diceva cose brutte contro Cosa nostra, lui attaccava tutti, quelli che avevano i processi, li attaccava giornalmente. Bastava guardare in faccia Mariano Agate mi bastava guardarlo in faccia per capire, io lo guardavo e capivo che Rostagno stava arrivando alla morte. Così come quando eravamo in carcere capivo che fuori stavano per uccidere Totò Minore. Mariano Agate non parlava mai, forse qualcosa gli poteva scappare quando giocava, al massimo delle sue vittime poteva dire “sta arrivando”». Rostagno attaccava tutti ma principalmente Mariano Agate. Noi ci lamentavamo un poco del figlio dell’avvocato Bologna, noi ci lamentavamo col padre, lui lo richiamava e tutto era risolto. (Salvatore Bologna editore della tv TeleScirocco). Per il delitto Rostagno mi chiesero di fare un sopralluogo presso la sede della tv dove lavorava Rostagno, a Rtc a Nubia. Il sopralluogo me lo fece fare Ciccio Messina di Mazara, capii subito cosa volevano fare, dopo qualche giorno lo incontrai e mi disse che tutto era a posto e che io non dovevano più interessarmi del delitto. Milazzo ripete: «Ciccio Messina mi chiese di vedere a Paceco dove era quella televisione io feci il sopralluogo per vedere la posizione, la tv era a Nubia, talvolta avevo incrociato Rostagno per strada, sempre di giorno, anche molto prima di quel sopralluogo, lo incontravo spesso, lo riconoscevo perché lo vedevo in tv».
11.05 Il primo delitto del quale parla Milazzo è quello di tale Monteleone, un ladruncolo di mezzi industriali, che fu ucciso perché rubava senza autorizzazione. «L’omicidio avvenne di notte, lasciai» – dice Mazzara – il delitto avvenne tra Marausa e Salinagrande, lì c’era l’abitazione di Monteleone. Vito Mazzara e Orlando l’hanno atteso e quando lui è arrivato verso mezzanotte gli hanno sparato. Fu utilizzato un fucile automatico calibro 12 e Orlando aveva un revolver calibro 38, il fucile lo aveva Vito Mazzara. Il pm chiede notizie sul delitto Montalto: furono usate le stesse armi risponde Milazzo. Fu usata anche la stessa auto. Dopo l’omicidio Montalto l’auto fu bruciata. A uccidere l’agente Montalto fu solo Vito Mazzara, Franco Orlando doveva sparare se c’era di bisogno. Se Vito Mazzara sparava era difficile che la vittima si potesse salvare. Vito Mazzara di solito, oltre al fucile, aveva addosso anche un’altra arma, calibro 38. Erano armi che lui teneva dentro in sacco. Vito
Mazzara era un professionista dei delitti, era molto in gamba per sparare, faceva anche i tiri al piattello. Milazzo ricorda che ha partecipato a diverse gare. Mazzara poteva sparare e modificare le armi con facilità . Milazzo ricorda:«mentre facevano gli appostamenti per Monteleone e Montalto, gli ho chiesto se quei bossoli che restavano a terra non potessero essere una prova contro di lui, lui mi ha detto cambiando un pezzo del fucile l’arma risultava sempre “genuina”, cioè non riconoscibile, non comparabile con altri delitti; era una operazione che lui faceva per impedire di lasciare tracce se il fucile finiva in mano alla polizia o ai carabinieri». Io l’ho visto come si comportava quando ha caricato il fucile per i due omicidi Monteleone e Montalto. Le armi si caricavano quando cambiavano la macchina pulita con quella sporca, all’aperto si facevano queste operazioni. Si prendeva il sacco, il fucile e la pistola e le cartucce e si caricava il fucile. E si era pronti per sparare
Mazzara era un professionista dei delitti, era molto in gamba per sparare, faceva anche i tiri al piattello. Milazzo ricorda che ha partecipato a diverse gare. Mazzara poteva sparare e modificare le armi con facilità . Milazzo ricorda:«mentre facevano gli appostamenti per Monteleone e Montalto, gli ho chiesto se quei bossoli che restavano a terra non potessero essere una prova contro di lui, lui mi ha detto cambiando un pezzo del fucile l’arma risultava sempre “genuina”, cioè non riconoscibile, non comparabile con altri delitti; era una operazione che lui faceva per impedire di lasciare tracce se il fucile finiva in mano alla polizia o ai carabinieri». Io l’ho visto come si comportava quando ha caricato il fucile per i due omicidi Monteleone e Montalto. Le armi si caricavano quando cambiavano la macchina pulita con quella sporca, all’aperto si facevano queste operazioni. Si prendeva il sacco, il fucile e la pistola e le cartucce e si caricava il fucile. E si era pronti per sparare
10.30 Sta per entrare in aula l’ex uomo d’onore di Paceco, Francesco Milazzo, uno dei collaboratori di giustizia più importanti della provincia di Trapani. Milazzo viene sentito come testimone assistito, non ha precedenti penali in corso, a difenderlo è l’avv. Carlo Fabbri, che è assente è sostituito dall’avv. Tranchina. L’avv. Galluffo, difesa di Vito Mazzara, sostiene che Milazzo nel corso della deposizione potrebbe assumere altra veste. Anticipa le sue tesi: Milazzo avrebbe avuto un ruolo nel delitto Rostagno. Cosa mai emersa. L’avv. Miceli inoltre giustifica l’assenza della signora Chicca Roveri, compagna di Rostagno, parte civile nel processo, assente spiega, per motivi di salute e porge alla corte i saluti della signora, assieme alle scuse. Milazzo entra in aula scortato e completamente coperto per non essere riconosciuto. Le prime domande rivolte al pentito, riguardano la storia criminale del collaboratore di giustizia. Milazzo ricorda di essere diventato mafioso nel 1973 appartenente alla famiglia di Paceco, ebbe il “dito punciutu” (il rito di affiliazione, ndr) in una proprietà di Mommo Marino, boss di Paceco, vicino al cosiddetto Ponte di Salemi; padrino fu Salvatore Giliberti, anche lui della famiglia di Paceco. All’affiliazione era presente tutta la famiglia di Paceco: i Sugameli, i Marino, i Giliberti, prof. Maiorana, Vito Parisi, i due Coppola. Milazzo fu affiliato quando aveva 25 – 26 anni. Il suo lavoro dapprima era in officina meccanica, poi coltivatore diretto, continuai a fare il contadino anche se affiliato alla mafia. Milazzo si è autoaccusato di alcuni omicidi, quello di tale Rindinella, Di Maggio, Monteleone, l’agente Montalto, e Mancuso. Delitti commessi insieme ad altre persone e Milazzo fa i nomi di Sugameli e Di Genova, Alcamo, Vincenzo Mastrantonio, Filippo Coppola, Vito Mazzara e Franco Orlando, Vito Parisi. «Ho sparato» – dice Milazzo – raccontando dei delitti compiuti per ordine di Cosa nostra, in qualche caso ha fatto da autista come per il delitto dell’agente Montalto. Uno che sparava sempre era Vito Mazzara e Franco Orlando, ex consigliere comunale Psi a Trapani, se c’era bisogno, dice il pentito, sparava anche lui.
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