Il nostro Scidà
Ha un lieve sorriso ironico, da ragazzo intelligente. L’aria, dalla finestra, gli passa leggermente fra i capelli. Ne muove a volte alcuni, arruffati e bianchi. Ed egli dorme. Dorme, nel buio della notte, la sua città. Dorme lo scippatorello, sognando un’infanzia normale. E’ in una delle statistiche più feroci d’Europa, quella della criminalità minorile catanese; ma i sogni sono liberi, ed egli sogna. Dorme il politico, sognando gli appalti dell’anno prossimo, Corso Martiri, miliardi.
Dorme il padrone-editore, inquietamente. Dorme il suo giornalista, dorme (ma più innocente) la ragazza di vita. Dormono i magistrati collusi, digrignando i denti. Dorme il bottegaio minacciato, dormono i ragazzini di Addiopizzo che lo difendono da soli. Passa la rara guardia notturna, passano le ronde dei mafiosi. Questa è la sua città.
“Venni a Catania, giudice del Tribunale, da Palazzolo…”. La città di Catania, a quei tempi, aveva al suo centro una grande piazza. Su un lato il palazzo di giustizia, cieco, sull’altro i carabinieri muti. Su un altro il grand hotel dove, settimanalmente, s’incontravano i padroni della droga. Su un altro ancora le bische della Famiglia Santapaola-Ferrera. Al centro, un gran monumento ai cui piedi si prostituivano i ragazzi che non avevano il coraggio di fare, per la dose quotidiana, una rapina.
Nella città si parlava, prudentemente. Ma non si scriveva. Si amministrava giustizia severa, contro i piccoli scippatori e ladruncoli che la miseria generava. Ma si chiudevano entrambi gli occhi di fronte ai ricchi mafiosi e ai loro imprenditori. “Rendo, Graci, Costanzo, Finocchiaro!”. Furono gli studenti della città, in quegli anni, quelli che fecero i nomi. Non certo i magistrati. Con una sola eccezione. “Mi concedano lor signori di esporre alcune considerazioni sullo stato della giustizia in questa città…”. Questo era lui, Giambattista Scidà, quello che ora dorme nella stanza accanto.
Non gli potevano dire di no: non puoi levare la parola a un magistrato, all’inaugurazione giudiziaria, una volta all’anno. E lui era un magistrato. “In nome del Popolo Italiano” c’è scritto sulle carte dei giudici. Lui ci credeva. Così, garbatamente, prendeva la parola e cominciava a elencare cifre e dati. Le cifre dei ragazzini ammazzati, divorati vivi dalla “città matrigna”. I dati degli intrallazzi dei benestanti, magistrati compresi, comprese le mura e i tetti delle preture. Le cifre della città indifesa, abbandonata alla mafia e ai Cavalieri.
E passavano gli anni. Io lo conobbi per caso, da povero cronista, facendo il mio mestiere come lui faceva il suo. Presiedeva il tribunale dei minori, cioè il posto dove andava a finire la produzione del sistema. Ti distruggo il quartiere, ti nego la scuola, ti butto sulla strada, non ti dò lavoro, ti lascio la delinquenza come unica prospettiva. E poi ti ammazzo, o ti faccio ammazzare dei mafiosi, o nel migliore dei casi ti trascino qui, nel tribunale e in galera. Giustizia e carceri minorili, prima di lui, erano gironi danteschi. Lì si veniva “giudicati” in serie come numeri; qui messi coi delinquenti grandi e spesso seviziati.
Con lui, tutto cambiò. Il tribunale diventò luogo di giustizia, dove ogni singolo caso veniva studiato e trattato con estrema attenzione. Nessun ragazzo fu mai abbandonato dopo. Famiglie, case-famiglia, comunità, assistenza individuale: spessissimo a spese del giudice, sempre per sua cura. Il giudice dei minori a Catania – l’uomo che borghesemente avrebbe dovuto essere il principale nemico dei ragazzi di strada – veniva accolto come un padre nelle periferie e nei mercati. La giurisprudenza minorile di Catania divenne, e come tale fu vista, un modello per l’intera nazione.
Ma questa era solo una parte. Poi c’era quella “politica”; cioè di servizio alla polis, della Città. Per vent’anni Scidà fu fra i pochissimi che combatterono, non una volta ogni tanto ma ogni giorno, e non con mezze parole ma apertamente, il sistema di potere catanese. Dai Cavalieri a Ciancio, dall’impresa e politica collusa alle infiltrazioni d’affari in tutti i palazzi: compreso quello di Giustizia. Lui, Fava e D’Urso furono gli eroi incorruttibili di questa guerra. Giuseppe Fava lo ammazzarono nell’84. Scidà e D’Urso ne ripresero, coi suoi ragazzi, la lotta. Giuseppe D’Urso morì, di malattia misteriosa, nel ’96. Scidà – dispersi i ragazzi di Fava, chiusi per la seconda volta i Siciliani – rimase solo. Dunque, dovette fare per tre.
“Bisogna difendere le leggi come le mura della città”, scrive Eraclito. Egli si piantò dinanzi a quelle mura con lancia e scudo come un guerriero antico. Nessuno gli fece paura, non pensò mai di arretrare. Facessero carriera gli altri, lo minacciassero pure. Non tradì la città nè i suoi ragazzi. Dall’una lo richiamava il dovere, dagli altri una sconfinata pietà.
Il giornale, una volta, era sul percorso del tribunale minorile, fra gli alberi del viale. Io uscivo prestissimo dalla stanza dove dormivo, per andare a prendere il primo caffè; e lui, alla stessa ora, andava da casa, a piedi, al tribunale.Mi si affiancava in silenzio, o io a lui, a mezza strada. Camminavamo muti, ognuno nei suoi pensieri, fino al piccolo chiosco del caffè. Da poco aveva perso una figlia, gli parevano futili le parole. Il barista, che ci conosceva, scaldava la macchinettà del caffè. Poi: “Buona giornata!”. “Buona giornata a lei!”. E ognuno al suo lavoro.
A volte andavo a trovarlo, nella casa ormai vuota, fra pile disordinate di carte e di libri antichi. Era un cultore di storia; il grande Le Goff, quando veniva in Italia, spesso passava da lui. Così, la conversazione spesso inavvertitamente si spostava da Catania al Siglo de oro, a Cervantes, al lugar de la Mancha. A volte, ma più di rado, capitava che pranzassimo assieme; di solito era quando andavo a trovarlo al tribunale. “Pranza con me?”. “Andiamo”. E qui c’era un intoppo.
La macchina di servizio che lo attendeva fuori (col fedelissimo autista di cui non ricordo il nome) era un bene dello Stato; poteva imbarcare il suo servitore Scidà dal tribunale a casa, visto che a ciò era destinata, ma tale privilegio non poteva assolutamente estendersi agli amici personali e privati. Non potendo far salire me (che sarebbe stato abusare), né lasciarmi a piedi (che sarebbe stato scortese), finivamo per andarcene a piedi tutt’e due, con l’autista che, solo in auto, ci veniva dietro. Per fortuna il clima catanese è mite e quelle mattinate erano – almeno nel ricordo – luminose e ridenti.
Cos’altro? So che dovrei parlare del caso Catania – l’ultimo – della Procura, delle cose importanti insomma. Va bene. Catania non ha mai avuto un Palazzo di giustizia lontanamente paragonabile a quello palermitano. Giudici antimafia ce ne sono stati pochi, tre dei quali (Lima, Marino e Ardita) costretti, in un modo o l’altro, a farsi da parte. Liti fra diverse cordate, ultimamente Gennaro vs Tinebra, a parole opposte ma di fatto equivalenti. Polveroni ogni tanto. Impunità.
E dunque proposta di Scidà: prendiamo un giudice terzo, uno di fuori. Campagna contro Scidà dei poteri forti, cui una Procura funzionante non fa affatto piacere. Spreco di polemiche (Ziniti, Rizzo, Condorelli, Sicilia, Sudpress, Repubblica) contro Scidà e in sostegno di uno dei due contendenti indigeni, per lo più Gennaro, a volte in buona fede a volte meno. Sullo sfondo, grandi attese nel settore appalti: avremo una Procura che li controlli oppure no?
Scidà (e con lui Giustolisi, Finocchiaro, Travaglio e Orioles) spera di sì. Altri parlano d’altro, o alzano polverone. Alla fine, ovviamente, vince il buon senso: il Csm nomina un procuratore esterno, che s’insedia e comincia a esaminare le carte. Tutti applaudono, compresi coloro che l’avevano osteggiato fino all’ultimo, o per interessi politici (vedi sopra) o per semplice stupidità, e che a tal nobile scopo avevano
fatto il possibile per linciare Scidà. Ma invece la giustizia ha trionfato e Scidà, oplita dei poveri, ha vinto.
E adesso è disteso qui, nella stanza vicina a quella in cui scrivo ed è piena notte. Nella sua casa, come sempre, non ci sono che persone buone: il fedelissimo Ferrera, la brava Abeba, Titta, Giuseppe, Luca… Una donna ha portato dei fiori gialli, un’altra delle spighe di grano. Ci sono due computer e una stampante, ma centinaia e centinaia di libri. Braudel, Lefebvre, Verga, Guicciardini, i Canti, Mallarmé, Cervantes… vecchi amici. C’è il suo giornale di otto anni fa, Controvento, quello che il distributore non volle mettere in edicola perché “sennò Ciancio ci leva il pane”. Ci sono carte e fascicoli dappertutto. Ci sono, chi addormentato in poltrona chi su un divano, amici che gli vogliono bene. Lui, nella stanza accanto, dorme sorridendo. Avremmo dovuto parlare dei Siciliani, fra pochi giorni. Era fra i promotori, proprio in questa casa ci siamo riuniti un mese fa.
“Mannaggia – penso – dovremo fare i Siciliani senza di lui”- Fra poco è l’alba. Lontano, la notte s’è fatta impercettibilmente meno scura. “Senza di lui? – pensiamo – Chissà se davvero siamo senza”.
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