«Una sentinella della Costituzione»
Serafino Famà era una sentinella della Costituzione. A 16 anni dal suo assassinio, così è stato ricordato alla facoltà di Giurisprudenza di Catania, l’avvocato penalista ammazzato per ordine di Giuseppe Di Giacomo, del clan dei Laudani, poiché ritenuto colpevole della mancata scarcerazione del boss. «Il ruolo dell’avvocato dovrebbe essere questo – afferma Giovanni Grasso, docente dell’ateneo catanese – Quello di guardiano della Carta costituzionale. Ma il momento non è dei migliori, e la situazione politica non fa che peggiorare la situazione». Torna sul tema anche Ernesto De Cristofaro, ricercatore, che sottolinea che «la Costituzione è la nostra casa comune, costruita sulle macerie fumanti della guerra e del totalitarismo». «Non esistono regimi eccezionali di fronte ai quali si possono sospendere le garanzie dell’ordine costituito – prosegue De Cristofaro – E una di queste garanzie è il diritto inviolabile alla difesa».
La Corte costituzionale. «Cosa sono gli Stati senza la giustizia se non dei grandi latrocini?» Bruno Di Marco, presidente del tribunale etneo, cita Sant’Agostino e parla della funzione di salvaguardia che la Corte costituzionale, per sua stessa natura, deve svolgere. «È il limite dell’onnipotenza del potere – spiega – Deve garantire che le leggi approvate dal parlamento si adeguino alla Costituzione, e non è altro che l’attuazione della volontà popolare e la dimostrazione che la giustizia deve essere intesa non soltanto in senso etico, ma anche e soprattutto in senso pratico».
L’articolo 24. «La difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento». Questo è parte del testo dell’articolo 24 della Costituzione, «del quale Serafino Famà è stato uno scudo». L’avvocato Enrico Trantino racconta la sera del 9 novembre 1995, quella dell’omicidio. «Non appena mi comunicarono la notizia, arrivai immediatamente in ospedale e chiesi dove trovare Serafino. Mi indicarono la camera mortuaria – ricorda – Allestimmo una camera ardente al Palazzo di Giustizia e decidemmo che ci dovevano essere sempre almeno quattro avvocati a tenere d’occhio la salma: dovemmo organizzare dei turni, c’erano troppe richieste». Ma la società civile («Come se ne esistesse una incivile», ride) non si fece vedere. «C’erano due città: una dentro il tribunale e un’altra fuori – dice – Solo che quella fuori era convinta che dietro la morte di un avvocato penalista non potesse esserci niente di pulito». E invece quell’avvocato era stato ammazzato perché faceva il suo mestiere in maniera corretta, «perché per lui non era importante chi fosse l’imputato, ma solo che fosse imputato», conclude Trantino.
Un collega e un padre. «Con Serafino si parlava di Diritto ed era bello». A ricordarlo è Enzo Trantino, avvocato anche lui, padre di Enrico e storico membro del foro catanese. Nel suo studio Famà aveva cominciato, fresco di laurea, a fare l’avvocato. «La morte dipende da come si è vissuto – sostiene – Serafino, per esempio, era convinto che il rispetto non fosse un atto dovuto, ma che lo ottieni in base a quello che fai e a come ti comporti». Fabrizio Famà non ricorda un professionista, bensì un padre. «Non parlo di lui in pubblico dal giorno del suo funerale – comincia – E siccome temo di non riuscire a dire tutto, ho scritto un discorso». Fabrizio tira fuori un foglio e inizia a leggere, «le partite di calcetto il mercoledì sera o il sabato pomeriggio, gli sfottò negli spogliatoi, le volte che in macchina cantava De André, Celentano, Modugno e Mina, le domeniche mattina in bicicletta, le sere che veniva a rimboccarmi le coperte». E poi «quella volta che provò a spiegarmi Don Chisciotte perché si riconosceva nel personaggio, era fuori dagli schemi come lui». Ma, su tutto, quella frase di sua nonna che gli ripeteva sempre: «La dignità è come un pugno di farina: se la getti nel vento non la recuperi più».
Fonte: Unaredazionesottosfratto
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