Io so, ma stavolta ho una foto
Catania ha un nuovo procuratore ed è il magistrato Giovanni Salvi. Salvi è stato eletto con 13 voti, contro gli 11 andati a Giuseppe Gennaro, il procuratore aggiunto in corsa per questa ambita poltrona come l’attuale procuratore generale di Catania Giovanni Tinebra, fermatosi ad appena 2 voti. In magistratura dal 1979, Salvi che ha 59 anni, è stato per venti anni sostituto procuratore a Roma, prima di approdare nel 2002 al Csm come componente togato. Da pm a Roma e poi da sostituto pg in Cassazione si è occupato di indagini delicate, come quelle sulla strage di Ustica, gli omicidi Pecorelli, Calvi e D’Antona e di inchieste sui Nar e le Br. Numerosi appelli della società civile avevano chiesto proprio l’elezione di un procuratore “estraneo” al contesto catanese. A seguire pubblichiamo un articolo del giornalista catanese, Pino Finocchiaro che in questi ultimi mesi ha riportato all’attenzione di tv e giornali, il cosiddetto “Caso Catania”.
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“Io so”. Scrive Pier Paolo Pasolini prima che lo uccidano all’Idroscalo di Ostia. E’ il 2 novembre del 1975, mi trovo a Roma. Trentasei anni: il filo rosso di una storia personale si riannoda con il 2 novembre 2011. A Roma, il Csm, nomina procuratore presso il tribunale di Catania, Gianni Salvi. Per la prima volta da molto più di trentasei anni la scelta cade su un procuratore estraneo agli equilibri di potere della città etnea.
“Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”. Scrive ancora Pasolini nei suoi “Scritti corsari”. E’ il tormento dell’intellettuale di fronte ad una verità nota a tutti ma “impronunciabile”. In questi trentasei anni provo molte volte quel tormento. Tante, troppe volte, non scrivo. Pur sapendo. In trentasei anni ne accadono di cose. Alcune proprio in quei giorni.
Novembre 1975. A Roma per un convegno sui movimenti di Solidarietà della chiesa cattolica. Diciottenne. Conosco un giovane prete. Da nove anni ha come parrocchia la strada. Quel giovane sacerdote conforta i suoi parrocchiani là dove finiscono più di frequente, le carceri. Don Luigi con quel sorriso aperto, mi parla del gruppo Abele e degli sforzi per salvare tanti ragazzi dal flagello della droga. Giovane e insolente, scuoto la testa. Dico a quel parroco dei marciapiedi di Torino: “Sino a quando i traffici internazionali restano sotto controllo di Cosa Nostra. Sin quando la mafia decide chi e come spaccia a Catania come a Torino… non si risolve il problema”.
Anni dopo nasce Libera. Con Libera, l’antimafia sociale ottiene udienza sui media e nei Palazzi. Grazie a don Luigi, possiamo distinguere l’antimafia politica dall’antimafia sociale. La politica travisa, omette, mente pur di sopravvivere a se stessa. La Società Civile no. Vive solo di verità. Al di fuori della verità, semplicemente, non esiste.
“Io so. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore…” scrive ancora Pasolini. Prima che lo uccidano. Adesso, sappiamo, al di là di ogni ragionevole dubbio: sul luogo del delitto, oltre al poeta e al suo presunto carnefice, l’allora minorenne Pino Pelosi, c’è un terzo uomo. I carabinieri del Ris hanno isolato il suo dna. Qualcuno rispolvera le dichiarazioni di Pelosi, unico condannato in via definitiva per l’assassinio del narratore, sulla presenza dei veri autori dell’omicidio. Sul loro accento siciliano o calabrese. Su quell’auto targata CT.
Forse. Forse, tocca alla procura diretta da Gianni Salvi offrire un contributo importante all’identificazione dei veri assassini della migliore e più trasgressiva penna italiana della seconda metà del secolo breve. Negli ultimi trentasei anni le nomine al palazzo di Giustizia di Catania si decidono nelle fumose sacrestie dei palazzi del potere. Inclusi quelli dell’informazione. Anni ’70. Muovo i primi passi nel giornalismo. Incontro Salvatore Nicolosi, capocronista del quotidiano La Sicilia. “Se domani non pubblico questa notizia. Semplicemente, a Catania, questo fatto non sarà mai accaduto. Se ne faccia una ragione”. Be’. No. Non me ne sono mai fatto una ragione. Con me moltissimi altri. Così, a trentasei anni dall’incontro tra un prete di strada e un aspirante cronista, le cose cambiano.
Il 4 gennaio 2011, dopo giorni e giorni di tormento intellettuale, decido di rendere pubblica sul mio blog e nel corso delle celebrazioni per l’anniversario dell’omicidio del direttore dei Siciliani, Pippo Fava, una foto che ritrae il candidato favorito alla nomina di procuratore nella città dove è morto Fava, in compagnia di un imprenditore al servizio della cosca Laudani “mussi i ficurinia”, poi ucciso dai vertici dello stesso sodalizio mafioso. Siedono a un rinfresco a casa di un socio (ombra) dell’imprenditore “grigio”. La loro società ha costruito la villa di San Giovanni La Punta dove vive l’aspirante capo della Procura etnea. Perché la pubblico? “Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere”. Potrei scrivere citando Pasolini. No, sono certo che la foto (notizia) è vera. E’ rilevante ai fini dell’opinione pubblica. Non esprimo un giudizio. Non esprimo un commento. Almeno sino ad oggi. L’unico commento che sento di esprimere, lo rubo. Lo rubo ad una conferenza organizzata negli anni ’90 dal movimento di Cittainsieme. C’era un pm, ex pretore d’assalto. Ricordo che disse, parola più parola meno, “la sanzione sociale deve anticipare l’azione penale”. Bene.
Perché quella foto andava pubblicata? “…è chiaro che la verità urgeva”. Suggerisce Pasolini. Già, ma perché una foto inviata in centinaia di copie ad autorità, testate e giornalisti locali, appare sul blog di un cronista televisivo catanese domiciliato nella Capitale? Ancora Pasolini, “A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale”. La verità disturba i Palazzi, gli appalti, le mani sulla città. In particolare, quel bel pezzo di città da ricostruire in Corso Martiri della Libertà. L’affare del secolo greve.
Ciò non ferma gli attivisti della società civile catanese. Se ne parla il 5 gennaio a Cittainsieme. Con don Salvatore Resca sono tutti d’accordo. Catania merita di più che un sostituto procuratore a colazione con l’imprenditore dei “mussi”. Catania merita di più dell’ex procuratore di Caltanissetta che sbaglia tutto nelle indagini sulla strage di via D’Amelio. L’Antimafia sociale ha le idee chiare. Dice e scrive basta agli equilibrismi correntizi. Basta alle intese surrettizie nel tentativo – sino al 4 gennaio 2011, ben riuscito – di collocare in piazza Verga vertici graditi a Palazzi e Palazzinari.
Conoscono la solitudine intellettuale e materiale. Non li spaventa. Non sono soli in questa battaglia di verità. Agli assordanti silenzi di chi non prende posizione subito dopo quel 4 gennaio 2011, replica l’indignazione mai più rassegnata di molti movimenti di Società civile. Scrivono note di fuoco, si danno convegno, celebrano sit in sul sagrato del palazzo di giustizia. Tra tutti, si staglia la figura epica di Titta Scidà, giudice integerrimo, implacabile accusatore del patto scellerato che ruba il futuro ai giovani.
La determinazione di Riccardo Orioles trasforma la rabbia in parole: rifacciamo i Siciliani con Scidà, Caselli e dalla Chiesa a far da garanti. La Città deve tanto a questi Siciliani.
Non dimentichiamo, Roberto Morrione. Spezzato ma non piegato dalla malattia sin nei suoi ultimi giorni, Roberto pubblica su Liberainformazione il resoconto sull’evento del 4 gennaio a Palazzolo Acreide, città natale di Pippo Fava. Morrione sdogana la vicenda dal localismo, la rende di dominio nazionale, legittima l’intervento di Giuseppe Giustolisi sul Fatto Quotidiano e il servizio televisivo di cronaca sul TG di Rai News di cui era stato direttore. Libertà da cronisti guadagnata sul campo grazie al via libera di quel vecchio capocronista di Roberto.
Incontro tanti aspiranti rivoluzionari. In piazza, in aula, per strada. Molti, sono giornalisti. Rivoluzionano le coscienze. Sanno che la notizia esiste sul web a dispetto del quotidiano potente o del canale nazionale televisivo che l’ignora per non urtare Palazzi e Palazzinari, ormai traballanti. Puntano tutto su metodo, rigore, verità. Sanno che un uomo fa la differenza. Il buon giornalismo vince. Ribalta coscienze, governi, vescovi e vescovadi. “Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato”.
Pasolini, trentasei anni dopo. Ricominciamo da qui.
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