Taranto, così lo Stato si riprende i beni del boss
Settecentomila euro il valore complessivo dei beni riconducibili a Lucio Bimbola, 53 anni, già condannato con sentenza definitiva per associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico di sostanze stupefacenti. A mettere i sigilli alle proprietà del boss, la Direzione investigativa antimafia di Lecce che ha eseguito un decreto di confisca emesso dalla prima sezione penale del Tribunale di Taranto, su richiesta della Procura della Repubblica. Alla figura di Lucio Bimbola sono legati periodi bui di Taranto, quando la città era vittima di una sanguinosissima guerra di mala. Bimbola era considerato uno dei cassieri del potente clan dei fratelli Riccardo e Giancarlo Modeo.
La Dia di Lecce, che ha condotto le indagini, ritiene che i guadagni illeciti dell’esponente storico del clan Modeo siano stati investiti nel mattone e nella ristorazione tarantina. Infatti, gli investigatori dell’antimafia leccese hanno confiscato due appartamenti, situati uno in città e l’altro sulla costa, a Marina di Leporano, oltre ad una cospicua quota della società a responsabilità limitata che gestisce il ristorante “Il Rugantino” a Taranto. Gli investigatori avrebbero appurato che i beni immobili e societari confiscati erano controllati da Bimbola che si sarebbe avvalso della complicità di prestanome a cui aveva intestato i suoi averi del valore di settecentomila euro. Un capitale fortemente spropositato rispetto a quello dichiarato dal boss.
La confisca è seguita al sequestro effettuato nel 2009 a cui l’interessato si era opposto con un ricorso che fu accolto dal tribunale. Dei circa 13mila beni confiscati alla mafia, in Italia, 855 si trovano in Puglia divisi tra beni immobili (764) e aziende (91). Per quanto riguarda la situazione della provincia jonica, la maggior parte dei beni confiscati è ubicata tra Taranto (30), San Giorgio Jonico (15) e Manduria (25). Nella città capoluogo, inoltre, sono state confiscate cinque società, mentre altre hanno sede a Manduria, Palagiano, Pulsano e Statte. Importante sottolineare un dato: i beni messi sotto chiave a Taranto sono riconducibili a boss della ‘Ndrangheta, mentre quelli confiscati a Manduria sono riconducibili al filone leccese e brindisino della Sacra Corona Unita.
Il patrimonio strappato dallo Stato ai clan mafiosi è coordinato da un’ agenzia nazionale che affida i beni ai comuni, i quali, a loro volta, li possono utilizzare per attività di pubblico interesse oppure li possono affidare in gestione a gruppi o associazioni no – profit. E’ sicuramente questo lo strumento più efficace della lotta alla mafia, perché un boss, durante la sua carriera criminale mette in preventivo la carcerazione e quindi, di conseguenza, l’affronta come un incidente di percorso. Colpirlo, invece, nel suo potere economico, significa indebolirlo sia nella sua reale forza operativa, sia agli occhi degli altri mafiosi. D’altronde, il fine ultimo di ogni attività criminale è il raggiungimento del massimo profitto.
Sottrarre ai clan il frutto del loro “lavoro” significa vanificare i traffici illeciti, inaridire le fonti che consentono di continuare a delinquere e soprattutto fanno risultare vincente lo Stato anche agli occhi degli onesti cittadini che possono constatare, con soddisfazione, come beni acquisiti con attività criminali diventano di pubblica utilità.
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