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Nuova udienza del processo sull’omicidio di Lea Garofalo

Di Marika Demaria il . Calabria, Lombardia

Nel 2000 l’operazione “Scacco Matto” portò all’arresto di diversi affiliati e vertici della cosca Niscoscia di Isola di Capo Rizzuto, compreso il capobastone Pasquale Nicoscia e Angelo Salvatore Cortese. Quest’ultimo, affiliato alla ‘ndrangheta dal 1985 e accusato anche di traffico di stupefacenti, collabora con la giustizia dal 17 febbraio 2008. È stato lui il primo teste dell’udienza di ieri, giovedì 27, per il processo Lea Garofalo che si sta celebrando a Milano. Collegato in videoconferenza, Cortese ha spiegato di aver conosciuto Carlo Cosco nel carcere di Catanzaro, dove era stato rinchiuso dal 2 novembre al 21 dicembre 2001, dividendo con lui la cella.

«Fin da subito – ha dichiarato il teste rispondendo alle domande del pm Marcello Tatangelo – ho instaurato con Cosco un buon rapporto: chiacchieravamo, cucinavamo insieme all’interno della cella. Io lo conoscevo già, un mio compaesano mi aveva parlato di lui e mi aveva detto che aveva problemi con la moglie, che non lo andava più a trovare in carcere impedendogli di vedere anche la figlia e che aveva instaurato una relazione con un altro uomo. E questa cosa qui, signor giudice, per un uomo è un disonore, a maggior ragione per un uomo di ‘ndrangheta». Già, l’onta del tradimento che macchia l’onore e che può essere lavata via solo con il sangue.

«Per questo motivo Carlo Cosco mi chiese di uccidere la moglie Lea Garofalo, ma questa è una decisione che io non potevo prendere se prima non parlavo con i miei capi, allora non gli avevo detto né sì né no. Lui si rivolse anche a Pasquale Nicoscia e Domenico Megna, padre di Luca Megna, ma in quel periodo c’erano questioni più importanti a cui pensare, per cui alla fine non gli avevamo dato una risposta e lui capì che non sarebbe dovuto tornare sull’argomento». Il periodo al quale fa riferimento Angelo Cortese è il 2003, anno in cui scoppiò una faida tra gli Arena e i Nicoscia per il controllo di Isola Capo Rizzuto, culminata nel 2004 e nel 2008 con gli omicidi rispettivamente di Carmine Arena e Luca Megna.

Dalla deposizione è emerso che la cosca alla quale apparteneva Angelo Cortese – collaboratore di giustizia dal 17 febbraio 2008, periodo in cui la Cassazione aveva chiesto la revisione degli atti che in primo e secondo grado lo avevano assolto – era alleata di Floriano Garofalo «e voi capite signor Giudice che Lea Garofalo era quindi un elemento di spicco, era necessario chiedere ai vertici prima di fare qualcosa. L’idea era di farlo passare come delitto passionale: secondo le nostre leggi, la decisione di uccidere un’adultera spetta per prima cosa alla sua stessa famiglia, però se non si decide allora può intervenire la famiglia della persona tradita che può anche chiedere ad altri di ucciderla, come ha fatto Carlo Cosco. È una questione di onore e di rispetto».

Le deposizioni sono proseguite con l’audizione del teste Carmine Cosco, carabiniere chiamato a rispondere su un preciso fatto. Dalla sua postazione informatica presso la Caserma di Lissone (in provincia di Monza Brianza), è risultato infatti un accesso alla banca dati del ministero dell’Interno alle 21.20 del 20 novembre 2004 per effettuare una ricerca inserendo il nome di Denise Cosco e la sua data di nascita. Carmine Cosco (non è stato specificato se vi siano rapporti di parentela con gli imputati, quindi dovrebbe trattarsi di omonimia) ha spiegato che «la password che permette l’accesso l’avevo appuntata su un’agenda che avevo messo in un cassetto, non chiuso a chiave. Quindi è accessibile a chiunque, non ricordo di aver fatto quella ricerca, non ricordo se qualcuno me l’ha chiesta, però chiunque da qualsiasi computer abilitato può entrare avendo username e password, anche da un’altra città».

Il pm Tatangelo incalzando fa notare al teste che quel giorno lui era di pattuglia dalle 16 alle 22, quindi non era in caserma, e chiede se avesse mai sentito nominare Denise Cosco o Lea Garofalo. «Nessuna delle due, però il cognome Garofalo mi è noto perché avevo un collega che si chiamava così». Gennaro Garofalo, che prestò servizio di leva militare presso quella caserma nel 2003: è lui il teste successivo, che in maniera confusa spiega che con Lea «forse siamo parenti, mezzi cugini. A suo fratello Floriano lo chiamavo cugino, quindi forse anche lei mi era cugina». Dalle domande dell’accusa – colpisce il fatto che il teste non si sia mai girato a guardare il pubblico ministero ma abbia sempre mantenuto lo sguardo fisso davanti a sé –  si comprenderà che suo nonno e il padre di Lea Garofalo erano effettivamente cugini, che è in rapporti di stima con Carlo Cosco e di amicizia con Vito Cosco e che Denise la vedeva quando lui rientrava a Pagliarelle per le festività natalizie o durante l’estate.

In merito alla ricerca del suo nome nella banca dati ministeriale, Gennaro Garofalo ha spiegato che «mi ero congedato il 17 novembre 2004, poi sono tornato tre giorni dopo per andare a trovare Carmine Cosco, volevo ordinare delle pizze e, aprendo il portafoglio, ho trovato un pezzo di carta con quel nome e quella data di nascita: me l’aveva dato Floriano Garofalo. Non ricordo a chi abbia chiesto di fare la ricerca, non ricordo se l’ho fatta io, ma mi ricordo che era saltato fuori la via Ruggia di Perugia, che a me ricordava la ruggine. Però io quell’informazione non l’ho detta a nessuno».

Rispondendo invece alle domande dell’avvocato Daniele Sussman, difensore di Carlo Cosco, Garofalo spiega che «quando vedevo Denise con sua mamma mi faceva pena, la vedevo che mangiava tanto, piena di orecchini, vestita male. Invece quando era con suo padre era diversa, secondo me era perché con suo padre stava benissimo e con sua madre no». Il pm ha inoltre chiesto contezza di alcune telefonate intercorse tra il teste e Carlo Cosco, nello specifico quella del pomeriggio del 19 novembre 2009, pochi giorni prima della scomparsa di Lea Garofalo. «Ci siamo sentiti – ricorda Gennaro Garofalo – perché avevano picchiato il parroco del paese e a noi sembrava una cosa buffa…».

Infine, con le dichiarazioni del comandante del nucleo operativo dei Carabinieri di Campobasso, Francesca Ferrucci, ci si è addentrati nella ricostruzione della post aggressione a Lea Garofalo, del 5 maggio 2009, quando, secondo l’accusa, Massimo Sabatino entrò in casa fingendosi il tecnico della lavatrice e tentando di uccidere la donna. Una posizione che è stata confermata nella precedente udienza anche da Denise Cosco, grazie alla quale si evitò il peggio, e dal carabiniere Marco Sorrentino che aveva attestato che le impronte digitali rilevate sul luogo dell’aggressione appartenevano a Sabatino, riconoscibile anche da un tatuaggio a forma di “A” sul collo. Il tenente Ferrucci non era ancora al comando del nucleo quando si verificò l’aggressione: un elemento rilevante secondo la difesa che, appellandosi all’articolo 195 del codice penale (“Testimonianza indiretta”), ha chiesto che fossero ascoltati anche i carabinieri ai quali la Ferrucci faceva riferimento riportando ciò che loro le avevano detto, come lo stato d’animo di Lea Garofalo che «era visibilmente sconvolta ma che era riuscita ad asserire con certezza che il mandante dell’aggressione era senz’altro il suo compagno, Carlo Cosco». Istanza rigettata. Nella casa di Campobasso erano stati ritrovati una corda di nylon bianca e arancione, lo scotch per i pacchi, del fil di ferro gommato, dei guanti in lattice da chirurgo ancora confezionati e una pallina morbida raffigurante Winnie The Pooh, «che abbiamo pensato potesse servire per far tacere la vittima, mettendogliela in bocca».

Il Tenente Francesca Ferrucci ha inoltre posto in evidenza che vi sono numerose intercettazioni ambientali e telefoniche a carico di Massimo Sabatino. Le prime, sia audio sia video, sono state effettuate presso il carcere di Catanzaro, nella cella dell’imputato (l’unico al suo interno a parlare con marcato a
ccento napoletano) e nella sala colloqui. Per quanto riguarda le seconde, è emerso, grazie anche all’acquisizione della rubrica da parte dei Carabinieri, che Sabatino era in contatto con i Cosco e con Venturino. Da controlli incrociati si evince che il nome di Vito Cosco era salvato come “A”, quello di Carlo Cosco come “Zio vecchio” mentre “Gozilla” era Carmine Venturino.  L’esito delle perizie attualmente in atto relative a detti supporti sarà reso noto nel corso della prossima udienza, che si svolgerà il 24 novembre.

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