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Processo Rostagno, Linares racconta la mafia trapanese dal delitto ad oggi

Di Rino Giacalone il . Sicilia

Quando nel 2008 stavano andando in archivio le indagini sul delitto di Mauro Rostagno, il sociologo e giornalista ammazzato a Trapani il 26 settembre del 1988, la Dda di Palermo decise di giocare un’ultima carta, affidando le indagini alla Squadra Mobile di Trapani a quegli investigatori che tra il 1992 e i primi anni del 2005 aveva ricostruito il puzzle degli affari mafiosi esistenti nel trapanese, “infilzando” uno dietro l’altro tutti i latitanti di mafia, che vivevano protetti da una congrega di colletti bianchi, seguendo le tracce lasciate da decine e decine di appalti pilotati. Una cosa che fecero quegli investigatori, che riesumarono i rapporti di un famoso capo della Mobile di Trapani, Rino Germanà, fu quella di riuscire a retrodatare alleanze e traffici vari agli anni ’80, tutto oggi con il sigillo di diverse sentenze passate in giudicato e un elenco di nomi, mafiosi, imprenditori, che costituivano, con la copertura della massoneria dilagante, la galassia della mafia trapanese. Alcuni di questi soggetti oggi scontata la galera sono tornati in auge, il boss latitante Matteo Messina Denaro che in quel 1988 cominciava a crescere a colpi di morti ammazzati, ne è oggi il boss e loro capo indiscusso, guida la cosidetta mafia sommersa, quella che è diventata impresa, holding, cassaforte di immensi tesori.

Linares nel 2008 fece quello che qualsiasi bravo investigatore deve fare, accertarsi se sono state fatte, ripetute, nel tempo, le comparazioni balistiche, per il delitto Rostagno per la verità questi riscontri non erano stati mai fatti, il processo in corso in Corte di Assise sta facendo scoprire che non solo alcune basilari indagini non furono compiute, dai carabinieri che hanno indagato sul delitto per 20 anni, ma che addirittura sono scomparsi o finiti in fascicoli “sbagliati” verbali e testimonianze che sarebbero stati utili ad arrivare presto, certamente prima del termine dei 23 anni dall’omicidio, alla matrice mafiosa. Le indagini di Linares fecero rileggere i verbali che molti pentiti sul delitto Rostagno avevano reso addirittura nel 1997, pentiti che avevano svelato il malumore di boss come i Messina Denaro contro Rostagno, e poi gli esami balistici hanno fornito il risultato che ha portato l’ex campione di tiro a volo della nazionale italiana, Vito Mazzara, sotto processo. L’ennesimo per lui con accusa di omicidio. Sta scontando, con Virga, ergastoli per delitti efferati, come quello dell’agente di custodia Giuseppe Montalto, ucciso nel 1995 l’antivigilia di Natale in un sobborgo agricolo di Trapani, la sua morte era il regalo dei mafiosi liberi a quelli in cella e che stavano al 41 bis. Il delitto Rostagno per modalità di esecuzione, per armi usate, combacia perfettamente con altri delitti commessi da Mazzara, omicidi seriali, dove la firma di Mazzara è diventata anche la sua ripetuta abitudine a marcare le cartucce prima del loro utilizzo, facendole attraversare la canna del fucile e facendole colpire dalla culatta, senza però farle esplodere.

Era un modo per rendere impossibile ogni perizia balistica di compatibilità, l’espediente ripetuto è diventato elemento di conferma, così come l’abitudine a sovraccaricare le cartucce, circostanza questa che il 26 settembre del 1988 portò ad esplodere il fucile imbracciato da uno dei killer che con Mazzara entrarono in azione per uccidere Rostagno. Alla Corte di Assise di Trapani Giuseppe Linares ha spiegato questi passaggi investigativi e descritto 20 anni di indagine. Non è stata una lunga testimonianza perché le regole processuali prevedono che gli investigatori non possano essere dettagliati nei loro racconti, certo è che i pm Gaetano Paci e Francesco Del Bene, come le parti civili, sono usciti soddisfatti dall’udienza, le difese degli imputati invece  hanno vinto laddove codice alla mano hanno impedito al teste di ripetere ciò che i pentiti hanno detto sul delitto, perché i pentiti verranno sentiti, c’è chi però ha (mal) pensato che le difese possono avere vinto l’udienza, se l’udienza si vince chiedendo al teste quanto costa un fucile calibro 12, non ottenendo risposta, certo che si in questo caso l’udienza è stata vinta dalla difesa.

Nel 1988 quando venne ammazzato, Mauro Rostagno faceva il giornalista in una tv locale di Trapani, Rtc,  l’editore, l’imprenditore Puccio Bulgarella, un giorno si e l’altro pure si incontrava con Angelo Siino, il ministro dei lavori Pubblici di Cosa nostra e di Totò Riina. Nello stesso anno, sempre il 1988, mafia, impresa e politica costituirono un tavolino dove veniva diviso tutto quello che era possibile spartire e trasformare in denaro, consenso, potere. Linares rispondendo ai pm e alle altre aprti del processo e poi anche allo stesso presidente della Corte di Assise, giudice Pellino, ha descritto ill vissuto investigativo del suo ufficio, a proposito della perenne presenza della mafia nel trapanese nel territorio, oggi dentro l’economia, le istituzioni, la società, e indicando le connessioni con le quali oggi la mafia di Matteo Messina Denaro riesce ad alimentarsi. Sui personaggi imputati nel processo, Vincenzo Virga e Vito Mazzara, Linares ha speso molte parole: Virga, che segue il dibattimento in video conferenza, dal carcere di Parma, fu catturato dagli uomini di LInares nel 2001 dopo sette anni di latitanza, “era l’uomo di Provenzano, gestiva imprese e appalti, aveva attribuito ai figli Franco e Pietro ogni compito di esercitare la pressione mafiosa sul territorio, anche usando la violenza; Mazzara, che segue il processo stando in aula, ieri vestiva una elegante sahariana, è un ex campione di tiro a volo che ha disputato gare con la divisa della nazionale azzurra, circostanza che la difesa ha tenuto a fare emergere, e però tra una gara e l’altra di campionato, andava in giro con Matteo Messina Denaro a compiere delitti; Mazzara è l’uomo che la mafia trapanese vuole proteggere a tutti i costi, in carcere non gli fanno mancare niente e Linares ha ricordato di una intercettazione nella quale alcuni mafiosi parlano di lui dicendo che non lo si deve abbandonare anche se in carcere, perché lui è un pezzo di storia della mafia e un suo pentimento sarebbe disastroso per Cosa nostra. A vederlo come sta Vito Mazzara sta in carcere senza che niente gli manca.

Nel 1988 ha ricordato Linares era libero il gotha non solo trapanese ma anche siciliano di Cosa nostra, ed i gruppi di fuoco erano operativi. Mentre crescevano gli affari e le alleanze. La mafia diventava un tutt’uno con l’imprenditoria e la politica, il territorio veniva assalito dalle speculazioni che nessuno ostacolava. A Trapani si parlava poco di mafia, anzi si parlava poco e c’era silenzio sulle cose che non andavano. Rostagno ruppe l’andazzo, “era un giornalista fuori dal coro” ha detto l’ex capo della Mobile. “Questo suo modo di fare giornalismo, di fare le denuncie non era raccolto da nessuno, mentre in quel periodo si procedeva a processare Mariano Agate boss di Mazara per il delitto del sindaco di Castelvetrano Lipari, praticamente lui da Rtc era a fvare la cronaca di quel processo che restava non considerato adeguatamente dagli altri organi di informazione. Rostagno di questo processo parlava abbondantemente e per quello che abbiamo tratto noi investigatori, questa circostanza dava fastidio a Cosa nostra. La mafia non lo poteva sopportare e i pentiti lo hanno confermato, Mauro era circondato dai lupi e i lupi lo hanno azzannato. Questa è la convinzione che ci ha fatto riaprire il caso”.

Linares ha ricordato come già “nel rapporto della Mobile del 1988 venivano citati gli editoriali di Rostagno sui cavalieri del lavoro di Catania, interessati a lavori pubblici eseguiti a Trapani, ne parlava senza uno straccio di riscontro giudiziario, per questi fatti i riscontri giudiziari arriveranno anni dopo il suo assassinio”.

Il difensore di Vincenzo Virga, l’avv. Giuseppe Ingrassia, ha però
cercato di inserire un colpo ad effetto con una domanda che però non ha imbarazzato Linares. “Come mai nei tanti editoriali, Rostagno non parla mai di Virga e della sua impresa all’epoca principale, la Calcestruzzi Ericina”. “Non ne poteva parlare e non lo avrebbe potuto mai fare – ha risposo Linares – perché la contezza investigativa su Virga emerse negli anni 90, considerato che all’epoca investigatori anche di punta andavano cercando il capo mafia Totò Minore che era però già morto e sostituito ma di questo non si ebbe contezza all’epoca in cui Rostagno faceva il giornalista. Anni dopo si scoprì che capo della mafia trapanese dal 1985 in poi era Vincenzo Virga per volere di Matteo Messina Denaro, Mariano Agate e Bernardo Provenzano, nomina che venne tenuta riservata”. Magistratura e forze dell’ordine non sapevano, la criminalità invece si. “Anche questa fu una scoperta che abbiamo fatto qualche anno dopo, grazie ad una intercettazione, dove un soggetto esperto estortore raccontò del fratello che ubriaco era entrato a far danno dentro una gioielleria alla periferia di Trapani e di averla scampata bene perché quella era la gioielleria di Viorga “chiddu chi cumanna a Trapani”.

Le sorprese vere dell’udienza arrivano quasi alla fine, quando l’avvocato di parte civile dell’associazione siciliana della stampa, il sindacato dei giornalisti, l’avv. Greco, chiede cosa fosse la promozionale servizi. “Era una società  in mano a Virga che si occupava di ciclo dei rifiuti, di smaltimento di rifiuti ospedalieri e speciali”. Una risposta che tira un’altra domanda sull’interesse di Virga per i rifiuti. Virga aveva le mani nel ciclo dei rifiuti, gestiva con prestanome l’impianto di riciclaggio di contrada Belvedere, alle porte di Trapani, amava dire, trasi munnizza (entra spazzatura) ed esce oro. E Rostagno in tv parlava spesso della città sporca, della spazzatura lasciata per le strade, e di come mai la gestione dei rifiuti costava miliardi alla collettività e la città restava sempre sporca. La gente lo ascoltava e gli dava ragione, per Cosa nostra era troppo. E Rostagno finì presto con il non parlare più di munnizza e delle altre cose che interessavano la mafia, Cosa nostra lo fece uccidere mettendo poi in giro la voce che “si trattasse di questione di corna”.  Anche questa circostanza che si ripete dopo i delitti di mafia.

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