Spatuzza sotto tutela
Parla di “nuovi elementi” Alfredo Mantovano, ma è chiaro che la decisione di dare il via libera all’ammissione di Gaspare Spatuzza al programma di protezione per i collaboratori di giustizia non deve essere facile da accettare per lui, dopo le roventi polemiche dell’ultimo anno e mezzo.
Sicuramente è la più controversa da assumere per il sottosegretario agli Interni, anche perché arriva al termine di una lunga partita giocata a colpi di carte bollate e nelle aule di tribunale, dove anche la storia e il futuro della nostra democrazia sono in gioco.
Da ieri, infatti, l’ex capomafia di Brancaccio, uno dei killer più spietati nella storia di Cosa Nostra, è ufficialmente sotto la tutela dello Stato italiano, ma il percorso per arrivare a questo accreditamento è stato molto lungo e non poco accidentato. Se ancora siamo lontani dal pieno riconoscimento del suo contributo alla giustizia, tuttavia è un segnale importante che giunge dopo una estenuante battaglia legale.
Nel giugno del 2010 la speciale commissione ministeriale che si occupa di vagliare le richieste di ammissione al programma di protezione aveva bocciato la richiesta dei magistrati di tre procure (Palermo, Caltanissetta, Firenze) di far entrare nel programma di protezione Spatuzza: infatti, le sue dichiarazioni non venivano considerate valide in quanto rese dopo il termine dei 180 giorni previsti dalla legge. A nulla erano valse le giustificazioni addotte dallo stesso Mantovano e dal ministro Maroni che si erano pronunciati per la doverosità dell’atto, visto la scadenza dei tempi: agli occhi dell’opinione pubblica la bocciatura formale suonava più che sospetta e molti commentatori l’avevano letta e interpretata come una ritorsione, in ragione del merito delle dichiarazioni rese da quello che un tempo era un uomo d’onore di una delle famiglie mafiose più importanti di Palermo.
«Graviano mi fece il nome di Berlusconi e mi disse che grazie a lui e al compaesano nostro ci eravamo messi il paese tra le mani»: se l’elemento più eclatante era costituito dalla menzione dei nomi di Berlusconi e Dell’Utri, “il compaesano nostro” nelle deposizioni dell’ex killer, in realtà ad essere in discussione era l’interpretazione complessiva della stagione delle stragi del 1992 e del 1993, anticamera del passaggio dalla prima alla cosiddetta seconda Repubblica.
In particolare, la strage di via D’Amelio, per la quale Spatuzza si autoaccusava in qualità di membro del commando mafioso, veniva ricostruita in modo diverso con il pieno coinvolgimento dei Graviano e lo sgretolamento della verità processuale fin lì faticosamente raggiunta, adombrando inoltre un comportamento sleale da parte delle forze dell’ordine, nello specifico degli uomini comandati dal questore Arnaldo La Barbera. Andavano così consolidandosi i sospetti sulla bontà della collaborazione di Enzo Scarantino, la gola profonda grazie alla quale erano stati istruiti i processi per la strage Borsellino. Scarantino sarebbe stato coartato a rilasciare deposizioni utili a tagliare ogni possibile legame tra l’attentato di via D’Amelio e i Graviano, per evitare qualsiasi collegamento tra i fratelli di Brancaccio e i responsabili del nuovo partito politico, Forza Italia, uscito vincitore dalla competizione elettorale del 1994.
L’autentica conversione religiosa di Spatuzza aveva innescato, a partire dal 2008, una piena confessione in grado di riscrivere completamente lo scenario che sembrava già abbondantemente delineato da diverse sentenze dei tribunali del nostro Paese.
Tuttavia, il mancato riconoscimento ufficiale della validità delle dichiarazioni del pentito, di fatto verificatosi con la mancata inclusione nel programma di protezione, escludeva la possibilità di farne entrare ufficialmente i contenuti nel processo Dell’Utri, anche se con una presa di posizione preventiva – e per questo discutibile – da parte del collegio giudicante.
I legali di Spatuzza comunque ricorrevano in sede amministrativa e proprio il 30 giugno scorso il Tar del Lazio si era pronunciato in suo favore, sottolineando che il limite dei sei mesi nel caso di specie non era applicabile, sebbene le dichiarazioni contestate sarebbero state rese dall’ex killer dopo il termine.
Nonostante quella che potrebbe sembrare a tutti gli effetti una “tardiva testimonianza”, infatti, aveva riferito di fatti appresi da terze persone, testimoni potenziali anche essi: non era necessario inserire tali fatti nei verbali né, a maggior ragione, la loro divulgazione «non poteva interdire l’ammissione alla misura tutoria proposta».
Secondo il Tar del Lazio, Spatuzza sarebbe stato da considerare inattendibile soltanto se avesse esposto elementi di sua conoscenza diretta dopo il tempo stabilito per legge.
Il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, aveva allora sottolineato l’importanza della sentenza «può restituire fiducia al mondo dei pentiti, anche quando parlano di fatti scottanti».
La sentenza immediatamente esecutiva del Tar ha quindi originato la decisione presa in questi giorni dal Ministero dell’Interno, con la specifica commissione che si occupa dei collaboratori di giustizia. Piena soddisfazione è stata espressa dal procuratore nazionale Grasso: «Era una decisione che avevamo auspicato noi e le Procure di Firenze, Caltanissetta e Palermo».
Ora si avvicina la possibilità concreta che il contributo di Spatuzza serva a riaprire l’inchiesta su via D’Amelio. La revisione di quanto avvenne il 19 luglio del 1992 è una pagina tutta nuova da scrivere per far sì che il sangue versato quel giorno non resti inutile.
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