Ultimo respiro di Alessandra Sgarella
Il destino è rigoroso e imprevedibile, a volta crudele, a volte generoso, altre incomprensibile come è stato quello di Alessandra Sgarella, imprenditrice milanese, moglie di Pietro Vavassori, proprietario di un’azienda di trasporti internazionali, la Italsempione, e da poco patron della Pro Patria, storica e gloriosa società calcistica di Busto Arsizio, madre di Ivan, tra le ultime vittime di sequestri di ndrangheta. La sua lotta contro il male grave che l’affliggeva è terminata presso la clinica milanese ‘Humanitas’ contemporaneamente a quella dello Stato per la cattura di tutti i suoi aguzzini. Alessandra muore all’età di 52 anni a Rozzano, nel milanese, ne aveva 37 anni quando fu rapita l’11 dicembre 1997, tenuta in ostaggio tra Buccinasco e la Locride in Calabria dove dopo nove mesi da quel momento aggredita mentre posteggiava la sua auto nel box sotto casa nel quartiere milanese di San Siro, fu liberata il 4 settembre del 1998. Poche ore prima della sua morte, senza dunque che Alessandra ne sia potuta venire a conoscenza, i Carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria arrestano l’ultimo componente di quel commando criminale che aveva segnato tragicamente la sua vita.
All’appello della Giustizia mancava infatti, Francesco Perre, latitante tra i più pericolosi del paese, ricercato dal 1999 poiché condannato in via definitiva nel novembre del 2003 a 28 anni di reclusione per sequestro di persone aggravato in concorso con recidiva. ‘Cicciu’ Perre, detto primula rossa, 43 anni, elemento di spicco della ‘ndrina dei Barbaro di Platì in provincia di Reggio Calabria ha terminato i suoi 18 anni di latitanza a Palizzi Superiore, mentre irrigava una piantagione di circa duemila piantine di marijuana. Era l’ultimo dei dieci sequestratori, con il ruolo di vivandiere, che tennero in ostaggio Alessandra Sgarella sulla cui liberazione senza il pagamento di alcun riscatto, stante il blocco dei beni della famiglia, vi furono dubbi e polemiche. Una richiesta di 50 miliardi di lire giunse nel gennaio 1998 dopo il blocco dei beni disposto nel dicembre 1997. Poi, dopo il silenzio stampa richiesto dalla famiglia, l’appello per ottenere ogni informazione possibile si rese necessario alcuni mesi dopo. I particolari della cattura di Perre sono stati resi noti in conferenza stampa dal Procuratore Aggiunto della DDA di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, insieme al comandante provinciale dei Carabinieri, colonnello Pasquale Angelosanto, e il comandante del Reparto Operativo, tenente Carlo Pieroni. Perre, cugino dell’ex superlatitante platiese Saverio Trimboli, arrestato nel febbraio del 2010 dai carabinieri a Platì, è anche cugino di Anna Trimboli, 41 anni, sorella di Saverio e moglie del boss Pasquale Marando, 48 anni, ricercato dal 2001 e sul quale esiste il sospetto di “lupara bianca”.
La vicenda giunge a compimento dopo oltre un decennio e senza che la vittima, Alessandra Sgarella, abbia potuto saperlo. Gli scenari che richiama questa operazione sono molteplici. La trasformazione della ndrangheta da ’’anonima sequestri’, che in una tra le pagine più pagine oscure della storia del paese – tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta – ha seminato terrore nell’Aspromonte, a holding del traffico internazionale di droga che oggi fattura 44 miliardi di euro all’anno. L’altro scenario è quello della colonizzazione dell’hinterland milanese da parte delle ndrine di Platì, Barbaro e Papalia. I Barbaro retti prima da Francesco Barbaro, classe 1927, detto “Cicciu u castanu”, consuocero del defunto “mammasantissima” sanluchese, Antonio Pelle, alias “‘Ntoni Gambazza”, e oggi detenuto nonostante l’età avanzata, e poi passato a Giuseppe Barbaro, classe 1956, alias “Peppi u sparitu”. I Papalia guidati dal boss Antonio Papalia, classe 1954, detenuto dal 1997 con a carico tre ergastoli inflittigli dai giudici milanesi, sposato con la platiese Rosa Sergi, per anni ha vissuto nella lussuosa villa bunker di via Fratelli Rosselli, 6, a Buccinasco. Tra Buccinasco, infatti, Cesano Boscone e Assago, secondo le forze dell’ordine e i magistrati antimafia, queste famiglie, mantenendo solido contatti a Platì, si sarebbero radicate da tre generazioni creando una sorta di “consorzio del Nord” che imporrebbe le proprie imprese in subappalto in ogni cantiere.
Una forma inconfondibile di ‘pizzo’. Esse farebbero capo secondo gli inquirenti proprio alle “famiglie” Barbaro e Papalia, che coordinano i clan Perre, Trimboli e Sergi, che sarebbero già inserite nei più grossi e importanti appalti di opere pubbliche.
Ma questa triste storia è ormai risaputa.
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