Perse le tracce di un importante collaboratore di giustizia
Era il giugno dello scorso anno, Gaetano Iannì, fondatore della stidda a Gela, tra i primi collaboratori di giustizia fuoriusciti dall’organizzazione rivale di cosa nostra nel territorio nisseno, non si presentava in Corte d’Assise a Caltanissetta per l’avvio di un processo contro tre ex affiliati alla mafia gelese. La notifica dell’atto che lo informava dell’inizio del dibattimento, infatti, era andata a vuoto: Iannì non era più reperibile.
E’ passato oltre un anno e del “padre” della stidda gelese non ci sono più notizie. Stando ad alcuni investigatori, che nel corso degli anni hanno seguito gli spostamenti del collaboratore, l’uomo era ormai uscito dallo speciale programma di protezione. Tecnicamente, dunque, Iannì era libero di spostarsi e di lasciare la località segreta che si pose quale nuovo scenario di una seconda vita: non più capo indiscusso della stidda di Gela ma uomo protagonista di una quotidianità ordinaria.
Dopo la mancata notifica di quel primo atto, altre sono andate a vuoto: del “tedesco”, così veniva soprannominato lo stiddaro che per anni aveva vissuto in Germania, non c’è più traccia. Neanche dal Servizio Centrale di protezione dei collaboratori di giustizia del Ministero di Grazia e Giustizia giungono notizie: Iannì, infatti, non rientra più nella competenza della struttura. Quello che gli investigatori ricordano per l’inusitata violenza delle sue azioni, per aver ordinato oltre 500 omicidi, come confermato, addirittura tra le pagine di un libro pubblicato in Germania, dalla moglie Edith Kliez, e per aver avuto come fedeli killer ai suoi ordini i due figli, all’epoca ancora minorenni, Simon e Marco, si è come volatilizzato.
Iannì, peraltro, è noto alle cronache nazionali perché, fra le dichiarazioni rese successivamente all’arresto avvenuto a Torino nel novembre del 1992 ve ne sono state diverse relative alla ricostruzione della vicenda del fondatore dell’Eni Enrico Mattei. Stando al gelese, il compito di definire i particolari per l’uccisione dell’ingegnere venne affidato al gruppo di cosa nostra nisseno capeggiato dallo storico boss di Riesi, Giuseppe Di Cristina.
Alcuni inquirenti, inoltre, sono certi che Gaetano Iannì, ancora oggi, con i segreti non ancora svelati, avrebbe potuto consentire di fare ulteriore luce sui decenni di mafia a Gela e in provincia di Caltanissetta: e aprire, ulteriormente, la dimensione dei rapporti mafia – politica.
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