Diario di bordo, giù per l’Adriatico
3 agosto 2011. La sveglia suona troppo presto sulle colline di Sarzana, ma la strada che dobbiamo fare oggi è tanta, troppa. Alle otto e mezza siamo già sull’autostrada, diretti a Gattatico, in provincia di Reggio Emilia, dove abbiamo in programma una visita all’Istituto “Alcide Cervi”. Giungiamo nelle campagna reggiane, alla Cascina dove ha sede l’Istituto e il Museo dedicati alla memoria dei sette fratelli partigiani caduti per mano dei repubblichini di Salò nel dicembre 1943: e la Cascina è proprio la casa in cui vissero i Cervi dal 1934 in poi. La stessa in cui, dopo la guerra, continuò a vivere loro padre Alcide, con le nuore rimaste vedove e i nipoti.
Ci accoglie Mirko, uno dei responsabili dell’Istituto nonché nostra guida nella visita al Museo: due sezioni accolgono una sobria esposizione di quella che fu la vita della famiglia Cervi, prima e dopo la guerra che si portò via i sette maschi figli di Alcide. Nella prima parte, la vita contadina degli anni Trenta, gli utensili e un trattore (che è anche simbolo dell’Istituto), per l’epoca quasi un unicum, una rarità nelle terre emiliane. Anche questo, a simboleggiare lo spirito innovativo che caratterizzò i Cervi, la lungimiranza di una famiglia contadina si, ma capace di guardare al di là del proprio campo, al mondo e al futuro. L’altro simbolo dell’Istituto è infatti lo storico mappamondo di casa Cervi, oggi adagiato sopra il trattore in un simbolico trait d’union fra agricoltura e cultura, fra praticità contadina e sogno.
Nella seconda sezione, invece, si passa alla politica, all’antifascismo, alla guerra. Un antifascismo profondamente radicato nella famiglia Cervi, ma culturale, prima ancora che comunista. Basti pensare che il padre Alcide era iscritto dagli anni Venti al Partito Popolare. La famiglia aderì alla lotta comunista poi, per influenza di Aldo Cervi, il più intellettualmente vivace dei sette, che, nel suo periodo di carcere fino al 1932, ebbe modo di conoscere molti prigionieri politici e nemici del fascismo.
E basti poi pensare che il primo atto rivoluzionario della famiglia fu, nel 1934, fondare una piccola biblioteca popolare per i contadini, tesa a fornire anche alla classi più svantaggiate i mezzi culturali per creare il dissenso. Ma già in questo atto si capisce quale fu la cultura politica dei Cervi: quella democratica del dialogo e dell’attenzione verso l’opinione di tutti, applicabile al governo della Fattoria come a ogni altra dimensione politica.
I Cervi furono partigiani della prima ora: ma troppo poco poterono combattere i repubblichini e i nazisti. Già nel novembre del 1943 furono arrestati, e poi fucilati, tutti insieme, nel dicembre. Per una rappresaglia, i fascisti di Reggio li massacrarono, sette fratelli, senza alcuna pietà.
La loro storia presenta delle unicità, ma è in realtà simile a quella di altre famiglie partigiane: la memoria e il mito simbolico che della famiglia Cervi è stato creato si deve in parte a Italo Calvino, che nel dopoguerra riscoprì la loro storia.
Ma soprattutto, al coraggio del grande “papà Cervi”, Alcide, che sopravvisse per oltre venticinque anni ai suoi sette figli. E che, in particolare, non abbandonò la loro Cascina, oggi Istituto e Museo ma anche casa, in cui la nipote Luciana Cervi vive ancora. Non l’abbandonò e fece si che diventasse museo vivente, testimonianza presente, santuario della Resistenza si, ma non vuota memoria. Oggi L’Istituto ospita un’oceanica festa (quest’anno sono venute 15mila persone) per il 25 aprile, e un’altra commemorazione il 25 luglio. Grazie anche alle collaborazioni con Libera, fa si che la memoria sia vero tratto di unione fra resistenza del passato e resistenza d’oggi, nell’ottica di un impegno che sempre si rinnova.
Dopo l’ottimo pranzo che ci viene offerto dall’Istituto, ripartiamo.
La strada è lunga, la meta sembra dall’altra parte del mondo: e invece saranno 400-450 chilometri, fino all’Aquila, la tristemente celebre L’Aquila. Per strada, lo confesso, sono pieno di curiosità: non vedo l’ora di guardare con i miei occhio quel che resta e quello che è stato fatto della città: dopo tante storie, dopo mille promesse, direi quasi di leggende, la voglia di constatare di persona è forte.
Proseguiamo fino a Bologna, poi costeggiamo l’Adriatico fino ad Ancona, poi verso a Pescara. Da lì, continuiamo nell’interno, e si apre davanti a noi il meraviglioso spettacolo del Parco Nazionale del Gran Sasso: le rocce dell’Appennino, l’aspro paesaggio collinare e i boschi, vasti come in Italia se ne vedono pochi. Il selvaggio Abruzzo. E’ ormai sera che giungiamo all’Aquila, anzi, nei pressi. Al “Teatro Nobel per la Pace”, in un capannone costruito come spazio sociale provvisorio dopo il terremoto. E’ in questo luogo all’alto valore simbolico che questa sera il nostro spettacolo “Soqquadro” debutta a teatro. La stanchezza si fa sentire, e a qualcuno manca ormai la voce per cantare e recitare, ma il morale è alto. La visita al capoluogo abruzzese è per domani mattina, in compagnia del giornalista freelance Angelo Venti: e non vediamo l’ora.
*** Sacrificio
“Da tempo l’abbiamo capito. Le donne e gli uomini di buona volontà
l’hanno capito. Siamo in molti ad averlo capito in questo nostro Paese,
in questa nostra Europa. Sarà necessario fare sacrifici, e sarà
inevitabile la fatica. È necessario però che si tratti di una fatica
lucida, pensante, creativa, dignitosa: con la schiena dritta.
Siamo disposti ad accettare un sacrifico che ponga di fronte a sé la
meta della giustizia, del riscatto delle persone, della promozione dei
“senza voce”, della restituzione a chi è stato defraudato del senso
della vita, dell’aiuto a rialzarsi a chi è caduto, della riconquista
delle relazioni. È il rapporto che ci rende umani. E nel rapporto,
assieme, saremo in grado di ritrovare la strada smarrita di un sociale
che sappia accogliere e riconoscere, a partire dalle persone fragili,
discriminate, impoverite. Un sociale ricco di “adesso”, nel presente,
per il futuro”.
Don Mario Vatta
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