Patrizi, plebei e l’imperatore pazzo
1.647 emigranti sono morti nel Canale di Sicilia nei primi sette mesi del 2011. 5.962 dal 1994. Gli ultimi venticinque l’altro ieri, vicino a Lampedusa. Gli emigranti superstiti, dai campi di concentramento, protestano disperatamente da Ponte Galeria a Mineo, ma se ne sa quasi niente perché il governo ha vietato ai giornalisti di avvicinarsi ai campi.
Una delle principali multinazionali del pianeta, la Foxcom (fabbrica gli Apple, i Dell, i Sony e gran parte degli altri giocattoli di massa) prevede di utilizzare nelle sue fabbriche novecentomila robot nei prossimi tre anni, facendo a meno di altrettanti operai. Continua la catastrofe della Fiat sotto Marchionne. 7,8 per cento di vendite in meno nell’ultimo mese. Colloqui banche-industrie-sindacati per un “governo tecnico” e un patto sociale. Repubblica azzarda i nomi dei “tecnici”: Mario Monti, Giuliano Amato o – il più probabile di tutti – Giulio Tremonti. Dopo l’imprenditore Berlusconi, avremo, a quanto pare, un altro governo degli imprenditori.
Queste sarebbero le notizie. Il commento è scontato. La crisi italiana si risolverà (o cercheranno di risolverla) tutta dentro al Palazzo. Dunque, non sarà risolta. I quaranta milioni di italiani (di più, considerando anche gl’italiani senza identità di cui nessuno sa esattamente il numero, come per gli schiavi dell’antica Roma) che hanno pagato questi vent’anni di Berlusconi – dell’imprenditore Berlusconi, e di tutti gli altri imprenditori che l’hanno appoggiato – non hanno voce in capitolo, non la debbono avere. Il prossimo Berlusconi starà un po’ più attento con le donne, non racconterà barzellette idiote, sarà un po’ meno ridicolo quando avrà a che fare con presidenti e regine e questo, nelle intenzioni del Palazzo, è più che sufficiente per noi poveracci. Contentiamoci. Giusto?
Parlavamo di Roma, quella senza Cristi e senza illusioni: l’impero. Approfondiamo il paragone. Anche allora ogni tanto un imperatore impazziva, e i proprietari del mondo – i senatori, i patrizi, coloro che secondo se stessi erano Roma – ne avevano paura. A volte, di malavoglia, si ribellavano. “Forza, plebe! Seguiteci! Viva la libertà! Morte al tiranno!”. E i plebei, che da generazioni lottavano sordamente per le loro vite, li guardavano diffidenti: “Ma voi non eravate a corte con l’imperatore?”. “Tempi passati! Adesso pensiamo a Roma!”. E i plebei, non del tutto persuasi, li applaudivano. “Quale artista muore con me!” sospirava Nerone. E già i senatori litigavano sul prossimo imperatore e su quanti pretoriani e quanti gladiatori sarebbero stati necessari per tener buona la plebe in avvenire.
L’impero alla fine cadde, perché non può durare un impero con troppo poca tecnologia e troppi schiavi. Ma questo i senatori non lo sapevano, e non gl’interessava saperlo. (Intanto, fra gli schiavi, si macinava qualcosa. Tutto un mondo diverso, né senatorio né imperiale. Un’altra cosa.)
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