Il “camaleonte” Matteo Messina Denaro
Alcuni pentiti lo hanno definito come il ministro degli esteri della mafia per via dei suoi traffici in Maghreb, in Venezuela e in nord Europa. Chi sa la sua storia ha coscienza che da almeno vent’anni ricopre ruolo importante per Cosa Nostra. Non sempre lo stesso però, perché ha saputo giocarsi tutte le maschere che aveva a disposizione, cambiando pelle come un camaleonte. E “la mafia del camaleonte” è proprio il sottotitolo del libro “Matteo Messina Denaro” scritto da Fabrizio Feo, giornalista del Tg3, per raccontare la storia del latitante di Castelvetrano.
«Ho avuto la fortuna di crescere con gli insegnamenti di due grandi giornalisti: Giuseppe Marrazzo e Roberto Morrione. Loro mi hanno insegnato a vedere al di là del mio naso, ad andare oltre. E’ quello che ho cercato di fare con questo lavoro, perché parlare di Matteo Messina Denaro vuol dire raccontare una storia di vent’anni, ma significa anche raccontare il presente. Un presente pericoloso ed incombente». Così l’autore, dialogando con Rino Giacalone snocciola intrecci e spunti inquietanti. Ad esempio quello che riguarda Saverio Romano, nominato ministro nonostante un procedimento in corso per mafia e le riserve Presidente della Repubblica. Romano, sia per i pentiti e soprattutto per le intercettazioni che sono agli atti, è indagato per i rapporti con Guttadauro. Al centro delle indagini che han portato alla condanna di Totò Cuffaro, Guattadauro “governava” le liste elettorali in Sicilia. La borghesia mafiosa emerge in maniera inquietante in queste trame, ma Denaro è uomo vicino anche alle frange della mafia stragista.
«E’ accertato che gli archivi di Riina siano stati consegnati poco prima del suo arresto proprio a Matteo Messina Denaro e non al cognato Leoluca Bagarella». Così come si sa che il fratello di Riina, Geatano, è sotto l’ala protettiva del latitante cui hanno da poco ritoccato l’identikit. Nelle lettere e nei pizzini ritrovati, Denaro si esprime in maniera inequivoca: “abbiamo più storia noi di questo Stato” e poi ancora “la nostra causa”, “la nostra tradizione”. Parole che ci ricordano che la storia delle mafie arriva da molto lontano, prima ancora dell’unità d’Italia. Eppure di queste storie si parla sempre poco e quando lo si fa si privilegia il taglio romanzato, più che la descrizione della pericolosità vera e l’emersione del profilo criminale di persone che hanno sulla coscienza esecuzioni, sangue e morti. Segno che non sempre si va oltre e che troppo spesso l’informazione non va al di là del suo stesso naso. Forse è anche per questo che si fa così fatica ad arrestare i latitanti.
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