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Ingroia: «Il codice antimafia un’occasione mancata»

Di Gaetano Liardo il . Progetti e iniziative

«La politica antimafia? Un po’ parolaia e propagandistica, e un po’ miope». Parola di Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo intervenuto oggi a Firenze alla Festa nazionale di Libera. Una lezione forte e appassionata che ha centrato il rapporto mafia-politica nell’Italia che cambia. Trattative comprese, forte del lavoro di indagine che la Procura del capoluogo siciliano sta portando avanti negli ultimi anni.   Prima di tutto, però, la mafia. Cosa nostra nello specifico. Data per sconfitta, ridotta ai minimi termini, in realtà è viva, forte e si sta riorganizzando. «Cosa nostra cerca di recuperare il terreno perduto negli anni della guerra contro lo Stato del biennio ‘92/’93».

Ovvero cerca di seguire quanto da più di vent’anni ‘ndrangheta e camorra stanno facendo: business. Le mafie, infatti, hanno abbandonato la strategia dello scontro aperto contro lo Stato concentrandosi sugli affari. Quindi, nonostante i proclami di questo governo, le mafie sono ben salde al loro posto. Perché? La risposta data da Ingroia è affascinante ma al contempo inquietante. «La politica antimafia dei vari governi della Repubblica non ha mai avuto intenzionalmente come obiettivo lo sradicamento delle mafie, ma solo il contenimento». Una dichiarazione sicuramente forte, ma basata su un approfondito lavoro di indagine e di ricostruzione storica.

Contenimento, quindi, anche quando lo scontro tra mafia e Stato  è stato violento. «C’è sempre stato il desiderio di trattare – ha dichiarato Ingroia- anche nei momenti conflittuali da entrambe le parti». A conferma di ciò la frase di Riina riportata da numerosi collaboratori di giustizia: «Facciamo la guerra allo Stato per poi fare la pace». Ovvero, Cosa nostra attaccando frontalmente le istituzioni ha voluto: «Ricontrattare i rapporti di forza con chi aveva scelto di convivere e contenere le organizzazioni criminali». Una trattativa si fa in due, e la Stato ha fatto la sua parte. «Forse le legislazioni di emergenza (le leggi approvate all’indomani delle grandi stragi di mafia, ndr) non sono state solo il frutto delle spinte dal basso, ma anche scelte della classe dirigente per difendersi dalla mafia». «Le leggi approvate nel 1992 – aggiunge Ingroia – non sono state l’effetto dell’emozione per la morte di Falcone e Borsellino, ma della grande emozione (dei politici, ndr) per l’omicidio di Lima».

«L’anomalia in Italia non è solo la presenza delle organizzazioni criminali, ma una classe dirigente compromessa con le mafie. Finchè non si recidono i legami, la mafia ce la porteremo dietro per molto tempo». Una via d’uscita possibile? Sicuramente non il codice antimafia discusso in questi giorni in Commissione giustizia. Bocciato dalle associazioni, ma anche dalla magistratura, definito da Ingroia: «Più fumo che arrosto». «Serve un salto di qualità nella legislazione che intervenga contro le mafie finanziarie e gli interessi tra mafia e politica». Tanti cambiamenti, anche semplici, che da molti decenni non sono mai stati recepiti e che difficilmente lo saranno in questa legislatura. Business as usual.

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