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La mafia cinese è come la ‘ndrangheta

Di Giorgio Mottola* il . Atti e documenti, Internazionale

La mafia cinese assomiglia sempre di più a quella italiana. Non solo contrabbando di prodotti contraffatti, ma anche estorsione, narcotraffico e prostituzione. Negli ultimi dieci anni, ha subito una vera e propria trasformazione. Altro che mitologia delle Triadi. Le organizzazioni criminali cinesi si sono strutturate, diventando capaci di controllare in modo quasi militare i propri territori, di gestire l’anarchia delle bande e di infiltrare propri uomini al vertice delle potenti e ricche associazioni di connazionali. Roma, Milano e Prato sono le loro capitali in Italia. Questo è il quadro che emerge dal rapporto sulla criminalità organizzata cinese nello Stivale, presentato ieri dal Consiglio Nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel).

Cinesi della capitale
Roma è lo snodo dei traffici nazionali di merce contraffatta. Tutti i prodotti che arrivano dalla Cina nei porti di Civitavecchia e Napoli transitano per la Capitale. I capannoni industriali che sorgono lungo la Casilina e la Prenestina si riempiono di scatoloni made in China e si svuotano nel giro di qualche giorno, per tornare a ospitare nuovi carichi. La richiesta di magazzini a Roma è così forte che i prezzi degli affitti mensili variano ormai dai 10 mila ai 20 mila euro per mille metri quadrati. A Milano, non si superano mai i 6mila euro. Eppure per un cinese la cifra è più che abbordabile. Ogni singolo container che arriva in un porto cinese può arrivare a fruttare oltre 100mila euro.

Anche le bande organizzate si sono radicate a Roma. Le più pericolose sono due, composte da cinesi che vengono dai distretti di Wenzhou e di Rui’an. Si occupano soprattutto di prostituzione (che in città rappresenta un fenomeno di dimensioni enormi, articolata in due mercati separati: un canale è a uso esclusivo dei connazionali e l’altro è per gli italiani) e bische clandestine, dove è possibile realizzare vincite che si aggirano tra i 20 mila e i 40 mila euro. Ma il vero affare rimane il traffico di merce contraffatta. Nella Capitale, in particolare, ci sono più o meno 25 grossi di importatori di prodotti dalla Cina. Fanno capo a un’unica società, composta sia da cinesi che da italiani. Al momento, sulla gestione di questo business è in corso uno conflitto tra  gruppi criminali del Zhejiang, che hanno in questo momento una posizione di dominio, e un gruppo originario del Fujian, interessato a entrare nel controllo delle importazioni.

Prato Chinatown
Ma secondo l’indagine del Cnel, Prato sarebbe lo scenario più preoccupante. Qui gli esponenti più influenti della comunità cinese avrebbero instaurato un rapporto di collusione con i capi delle bande criminali. Si tratta di relazioni che si fondano sullo scambio reciproco di favori. I gruppi criminali, da un lato, mettono a disposizione i servizi dell’industria della violenza: fanno da guardie del corpo o da esattori per i crediti. Dall’altro, ricevono in cambio vitto, alloggio, spese quotidiane e soprattutto protezione e consenso sociale grazie al loro stretto rapporto con gli uomini più ricchi della comunità.

Mafia cinese come la ‘ndrangheta
Le bande si aggregano quasi sempre per provenienza geografica. A Prato, dove i cinesi residenti sono oltre 16 mila, i gruppi si compongono in base alla città: la banda di Fujiem, e quella di Chang Le sono le più forti. Ma spesso il tipo di legame, proprio come succede ancora oggi per la ‘ndrangheta, si basa sulla famiglia: le nuove reclute vengono scelte all’interno del nucleo familiare.  In molti casi, i componenti sono giovanissimi e si muovono sul territorio autonomamente, compiendo rapine e furti ai danni dei connazionali. L’attività criminale più diffusa è però l’estorsione. Che quasi mai arriva all’attentato intimidatorio: dopo la richiesti dei soldi scatta infatti una lunga trattativa con l’estorsore, che spesso riceve i soldi solo molte settimane dopo la prima minaccia. Sono soprattutto le bande formate dai giovani a finire sui mezzi di informazione per sparatorie o faide regolate a colpi di coltello. Si tratta di ventenni che vivono la fase di disgregazione della comunità cinese in Italia: sono cinesi, ma hanno le stesse aspirazioni  e le stesse ambizioni dei coetanei italiani.

A Milano controllano le piazze di spaccio all’interno della comunità cinese. Da qualche tempo, alcuni gruppi hanno iniziato ad affittare discoteche e a organizzare serate danzanti riservate a connazionali, per rendere più efficiente  lo spaccio di sostanze stupefacente. Si va dall’ecstasy alla chetamina, la prima detta yaotouwan  (ovvero “pillola che fa girare la testa”) o caramelle, la seconda detta K o King – chetamina (polvere di colore bianco simile alla cocaina chiamata anche weijin).

Schiavitù clandestina
Per i gruppi più strutturati, invece, il business principale a Prato rimane lo sfruttamento della manodopera clandestina. Il traffico di immigrati rende meno rispetto al passato: un viaggio oggi costa tra i 4000 e i 6000, a fronte dei 15mila che si pagavano alla fine degli ann’90. Ma far lavorare un cinese senza permesso di soggiorno può rivelarsi un vero e proprio affare. Una paga media parte da un minimo di 100 euro e arriva a 500 euro. In un laboratorio cinese, spiega il rapporto del Cnel, al gradino più basso troviamo gli zagong (letteralmente “lavoratori che fanno un po’ di tutto”), addetti al taglio dei fili e alla piegatura degli abiti, il cui salario si aggira attorno a 7.200 euro l’anno; poi gli shougong, (“lavoratori manuali)”, capaci di cucire e stirare anche se
non perfettamente, il cui compenso annuale è di circa 8.400 euro; infine, vi sono i chegong, (“addetti alla cucitura”), operai specializzati in grado di cucire in modo professionale che possono arrivare a guadagnare fino a 1.000 euro al mese.

* Tratto da Terra del 19 maggio 2011

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