Primo maggio 2011
Grazie Renzi, grazie Moratti, grazie tutti voialtri tromboni: grazie a voi il primo maggio, nonostante il concerto, è tornato una giornata seria, un quarantotto, uno sciopero, un niente-di-regalato. Ai bempensanti e ai monarchici fa di nuovo paura. “Sciopero, sempre sciopero! Approfittano che il governo è troppo buono…”. “Glielo darei io, il primo maggio! Tutti in Russia da Putin, li manderei!”. “Eppoi, dove sono tutti ‘sti operai, oggigiorno? Tutti signori sono diventati, stanno meglio di noi, stanno!”. “La verità è che non c’è più voglia di lavorare, signora mia”. Ma sì. Aggiungi guerre di Libia, nozze di principi, contrasti diplomatici con la vicina Francia, miliardari bavosi, corazzate, papi, pellegrinaggi: ma siamo nell’Ottocento! Un bellissimo Primo Maggio fin-de-siècle, in cui la Fiat non è ancora (o non è più) una Fabbrica ma una marca di cioccolatini o un club di finanza allegra: Ottocento! Il Corriere, nell’ultimo elzeviro, richiama pensosamente all’ordine, ché il momento è complesso; replicano i giolittiani che bisogna pur pensare anche al progresso; Sua Maestà ammonisce questi e quelli e in talune città, ma mille difficoltà ma tutto sommato con sicurezza, nasce una cosa strana, il sindacato.
“Ma davvero potremmo chiedere… venti lire?”. “Ma certo! Tutti insieme, che ci possono fare?”. “Compagni! In questa giornata noi lavoratori…”. “Tenente! Favorisca schierare la prima fila!”. “Dammi un bacio, dai!”. “Perché in tutta la civile Europa le otto ore…”. “Per la seconda volta, sciogliere l’assembramento!”. “No, no… Leva le mani…”. “Francesi come prussiani nostri fratelli…”. “In nome della legge, scioglietevi!”. “Disordini fomentati da agitatori socialisti…”. “Gli storici interessi dell’Italia nel Mediterraneo…”. “Ohhh….”. “E dai tanto poi ci sposiamo…”. “Tienila su! Tieni su quella bandiera!”. “Com’è verde l’erba”. “Me la consegni!”. “No, è nostro diritto!”. Buio. Colori dietro le palpebre. Corpi in terra. Tempo che passa. Treni, trincee, rumori. Tempo che passa ancora. Tempo…
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Bene, nell’Ottocento – per amore o per forza – ci si organizzava. Lo sciopero. Il sindacato. Il partito. I discorsi insieme. La rivoluzione. Non si può fare più? Chiedilo alla Tunisia. E’ solo che è una cosa diversa, un’altra cosa. Non c’è più zar nel Palazzo, è nello specchio. E’ in quel mondo fasullo in cui ti fanno vivere fra tv e droga. Non usano più baionette ma favole, non sono più forti di te fisicamente, sei tu che tieni fermo te stesso con un sorriso felice sul viso assente. Se batti le mani abbastanza forte – così, un bel “ciaff!” da bambino – magari il rumore ti sveglia. Quello, o qualche cosa di simile: non una rivelazione o un’idea (che altro avresti bisogno di sapere?) ma semplicemente uno svegliarti. Un momento simbolico, basterà questo.
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Lo sciopero generale, contro la mafia e Marchionne. Il nostro “partito”, che è la Fiom e Libera e tutto ciò che vive intorno ad essi. Il nostro governo, i nomi dei nostri ministri e presidenti – gente come Pertini o Caselli, non gente elucubrata nei palazzi -, la nostra unità nazionale che è quella di Parri e De Gasperi, del comandante Longo e del Cln. La nostra rivoluzione, coi lavoratori e le donne in prima fila (disarmati e tranquilli, perché è una rivoluzione e non un gioco) e le file dei carabinieri che si aprono lentamente per lasciarli passare. Con una fucilazione di pernacchie, una grande e liberatoria sghignazzata collettiva. Coi vecchi che si guardano allo specchio, le puttane che arrossiscono, i procacciatori e i magnaccia che corrono a nascondersi per un sentimento mai percepito.
Non è possibile, dici? Chiedilo ad Ahmed, a Ridah, ai nostri concittadini tunisini. O anche a me se ti va, a me che ho visto quei venti mesi del Sessantotto. Ci uccisero con Piazza Fontana, quella volta. Ma forse quest’altra volta non ci riusciranno (ora, fra le altre cose, c’è Obama).
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