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No alla cultura del respingimento

Di don Virginio Colmegna* il . Interviste e persone, L'analisi

I migranti che lasciano le coste del nord Africa per approdare in Occidente ci interrogano su più fronti. Innanzitutto scuotono le nostre coscienze le persone che perdono la vita nella traversata del Mediterraneo. Di fronte a simili tragedie non si può reagire con l’indifferenza. Il nostro primo dovere è dare un nome e un volto a queste vittime, ricordarle con rispetto e come parte intensa di un’umanità lacerata dall’impossibilità di vivere un’autentica fraternità universale.

Questi migranti ci interrogano anche su un piano prettamente pratico. Dobbiamo risolvere un’emergenza fatta di continui sbarchi. Anche qui, il primo passo da fare è restituire un’identità a queste persone. Un nome, un volto, una storia. Scopriremmo così che si tratta per lo più di giovani, magari istruiti, alla coraggiosa ricerca di un futuro migliore, carico di speranza, per sé e per le proprie famiglie, che vogliono aiutare da lontano con le rimesse di un lavoro vero.

Entra così in gioco il piano dei diritti. Un documento è anche un lasciapassare di dignità, di relazione, il riconoscimento di uno status che va oltre l’odiosa distinzione tra profughi e clandestini. E qui dobbiamo interrogarci sul nostro senso dell’accoglienza, che interpella anche, se non soprattutto, il nostro essere comunità.

Ci stiamo lamentando dell’atteggiamento e della politica dei francesi. Ma il loro chiudere le frontiere è tanto diverso dal nostro concedere permessi temporanei presentati solo come strumento per lasciare il nostro paese? Non sono forse entrambi i comportamenti figli della stessa cultura di respingimento? Anzi, questa querelle appare sempre più schizofrenica e paradossale. Assistiamo a una diatriba che porta la questione in un vicolo cieco. Si vuole risolvere un problema dicendo che non tocca a noi risolverlo. E l’altro fa altrettanto. Forse è solo il vecchio trucco dello scaricabarile.

Eppure la concessione del permesso di soggiorno temporaneo rappresenta una grande occasione. Vale a dire, l’opportunità di affrontare la vicenda in termini di risoluzione di un problema che porta dentro una dimensione carica di vera solidarietà. Perché concedere un permesso di soggiorno temporaneo è innanzitutto la sconfessione del reato di clandestinità in quanto restituisce una dimensione umana al migrante che approda sulle nostre coste, in fuga da disperazione, povertà e disoccupazione. Portare su un piano di legalità la vita di queste persone significa poter lavorare con loro e per loro, sostenerli eventualmente in percorsi di ricerca di un’occupazione, dopo aver trovato una sistemazione magari più decorosa di una tendopoli. In questo senso, l’attivarsi delle comunità cristiane, in primis la Caritas, per dare ospitalità ai migranti, va letta nell’ottica del dovere della solidarietà che il nostro essere credenti continuamente ci richiama.

Affrontare la questione ci pone di fronte a un ultimo interrogativo, che è il senso del limite. Possiamo davvero accogliere tutti? Questo non lo sappiamo, ma sappiamo quale deve essere lo spirito che ci guida. Quello di una solidarietà non egoistica, una solidarietà vera, di condivisione, che non rimanda il problema ad altri trattando le persone come merci del supermercato, da spostare un po’ qua, un po’ là. Anche perché mentre nei salotti televisivi si continua a dibattere su cosa fare, centinaia di tunisini sono già a Milano, a chiedere un pasto alle mense dei poveri o a domandare ospitalità in luoghi come la nostra Casa della carità. L’accoglienza è un dovere, non per buonismo, ma per una reale, concreta ed efficace volontà di risoluzione dei problemi. Accogliere persone con un nome, un volto, una storia, riconoscere loro dignità e diritti di cittadinanza, è l’unico modo per farlo.

* presidente fondazione Casa della carità

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